In origine era la Allman Brothers Band, di nome e di fatto. La nascita del southern sta qui: country, blues e corpose infarciture di rock, suonate con cervelli e mani fortemente protesi alla jam collettiva.
Dopo un primo omonimo album in cui le marcate connotazioni rock-blues emersero a fatica in una fascia di mercato già monopolizzata da Eric Clapton e compagnia, questa seconda fatica discografica presenta sonorità in bilico tra ascendenze quasi bucoliche - tanta la vicinanza al genere country (vds, in tal senso, "Midnight rider” o “Revival”) - e blues di stampo classico (obbligatorio, in tal senso, citare il classico "Hoochie Coochie Man” a firma di Willie Dixon, e "In memory of Elizabeth Reed” che, pur essendo composto da Dickey Betts, un classico lo sarebbe diventato prestissimo). L'album evidenzia la pregiatissima propensione del gruppo alle lunghe jam, poi esasperata e sublimata in “Live at Fillmore East”, epocale doppio album che rese famosa la band in tutto il globo. Quasi meno marcato, in quanto a sonorità, soprattutto se confrontato al citato esordio, “Idlewild South” è certamente dotato di maggiore personalità: originale e concreto in termini compositivi, non soltanto contiene due pezzi entrati nella storia del rock (uno è “In memory of Elizabeth Reed”, l'altro è "Midnight Rider"), ma fu anche il trampolino di lancio per le collaborazioni di Duane Allman con il citato Eric Clapton nella indimenticabile formazione “Derek and Dominos” (il chitarrista inglese rimase così colpito dal sound della band, da volere il biondo chitarrista nel suo album del 1970 "Layla and Other Assorted Love Songs"). In conclusione, è questo il primo disco da consigliare ai neofiti, tanto per la sua immediata fruibilità - ma sempre parlando di altissima qualità - quanto per la sublime ed innata capacità di saper tratteggiare il nascente genere southern, pur di derivazione bluesy, con l'unico difetto di durare poco meno di 31 minuti, troppo poco anche per gli standard limitati del vinile.
Bartolomeo Varchetta e Gianluca Livi
“Come on baby drive south, with the one you love” recita un vecchio brano di John Hiatt registrato quasi vent’anni dopo il celeberrimo “Idlewild South“ della Allman Brothers Band. E, idealmente, è proprio di un ipotetico viaggio che parliamo, condotto in macchina fra strade polverose e territori talvolta desolati , talvolta colorati, del Sud Degli Stati Uniti. La provenienza Georgiana dei nostri non mente, poco più che ventenni i ragazzi affrontano le mille fragranze del Sud con piglio smaliziato e navigato. Abbandonata quasi del tutto quella tendenza da "blues cosmico" del primo omonimo lavoro, quasi una formula rivisitata e corretta del british blues d’oltreoceano, la band insegue un suo personalissimo cammino artistico gettando con foga quei semi che di lì a pochissimo si tramuteranno in una vera e propria corrente definita “southern rock”. E proprio slegandoci da questa definizione nella sua forma più conosciuta, quella muscolare e machista, possiamo definire “rock del Sud” tutto quel caleidoscopio di suoni ed umori che partono da New Orleans ed arrivano sino ai monti Appalachi, oppure dalle terre dei Seminoles della Florida dritti fino al Mid-West. Di strada ce ne è tanta, di musica pure. Il Jazz di New Orleans, il blues rurale, il rock n’ roll, il country, tutti ingredienti che condiscono sapientemente il piatto che i nostri hanno preparato per noi. Si parte con “Revival”, clima da chiesa pentecostale di qualche small town della Louisiana, ritmo quasi caraibico, merito della doppia percussione, marchio di fabbrica della band, jazz sulle punte filtrato da un gospel irresistibile e tardo hippie. Le chitarre legano tra loro creando un sodalizio irripetibile, elemento vincente di una coppia di chitarristi che ha ampiamente dimostrato come far convivere assieme due talenti puri, carichi di estro. Se da una parte c’è Duane Allman, torrenziale e geniale nelle sue cavalcate cosmiche di chitarre slide e note tirate allo spasimo, dall’altra c’è la maestria di Dickey Betts, colui che ci mette una pezza, che con eleganza e buon gusto si integra perfettamente nella centrifuga chitarristica, vorticosa e rarefatta, del suo degno collega. Il nostro vagare fra le terre del Sud continua con il blues, elettrico ma primitivo, di “Don’t Keep Me Wonderin’ “ dove l’armonica di Thom Doucette duella con la slide di Duane. Entrambi sembrano inseguire il fantasma di Robert Johnson fra le rive del Mississippi, mentre la band rimane in qualche localaccio di New Orleans a suonare il loro Blues pesto. Appena fuori città l’aria è meno salmastra, si cominciano a sentire i profumi della robinia, della vaniglia e della sabbia che si tramuta in terra. E quando entrano in gioco le canzoni, quelle d’autore, il banco salta. “Midnight Rider”, voce consumata da un bourbon di troppo e la scena è tutta la sua. Signori, Greg Allman, biondo, troppo nordico per una voce così tremendamente soul eppure è lì che accarezza i tasti del suo Hammond B3 mentre intona uno degli inni prediletti del southern rock. Fusione perfetta di canzone americana influenzata da folk, country e blues sottopelle. E poi c’è il Soul, quello vero, quello dei Muscle Shoals. Tom Dowd, the producer, osserva il tutto compiaciuto. La mezzanotte è quindi passata, il paesaggio lunare intorno a noi diventa gotico, come le leggende sul Bayou e sul Lake Charles. Da lontano sentiamo la chitarra di Dickey Betts pennellare le note di “In Memory of Elizabeth Reed”, leggenda vuole che sia stata scritta all’interno di un buio cimitero. Sinistro, ma non funereo, questo brano strumentale di sette minuti è una “jambalaya” di umori e suoni che dai toni chiaroscurali jazzati, diventa una jam libera e lisergica, inspiegabilmente disciplinata, come se fosse stata colpita da qualche incantesimo voodoo dei vicini Caraibi. Con “Hoochie Coochie Man”, il classico, la band paga pegno ed eccoci tornare per un momento in climi più vicini allo stupefacente esordio di solo un anno prima, Berry Oakley, canta assuefatto dal peyote. Il nostro viaggio continua verso l’Alabama ed ecco riemergere il soul tinto di blues che, introdotto da un pianoforte gentile, ci conduce all’ascolto della bellissima “Please Call Home” cantata da un Greg Allman in piena consapevolezza dei suoi mezzi. In tutto l’album quando, non è la sua voce ad ammaliare, entra in gioco il suo Hammond B3 a tenere in piedi un’impalcatura estremamente estrosa e mobile. Greg, il collante, tiene tutti uniti. Ora la radio passa la conclusiva “Leave my Blues At Home”, toni quasi funky, manca solo il piano di Dr. John e qualche donna del mistero che si aggira furtiva in città. Ma noi la tristezza l’abbiamo lasciata a casa già prima di partire ed ora non ci resta che rimettere il nostro disco nella custodia e prestarlo a qualche amico che intenderà fare il nostro giro al contrario. E magari, chissà, sulla strada incontrerà un oscuro signore chiamato Johnny Jenkins che, muovendosi sulla medesima vena artistica dei nostri, ci regala il bellissimo “Ton-Ton Macoute”, album ricco di brillanti collaborazioni da parte della Allman Brothers Band. Non è escluso che il partecipare a sessions così dense di voodoo music, blues rurale e soul abbia influenzato i nostri a concepire un album ricco come “Idlewild South”, leggende e supposizioni a parte.
Jacopo Giovvanercole
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Duane Allman - chitarra solista, acustica, slide Dickey Betts - chitarra solista Greg Allman - organo, pianoforte, voce (eccetto in "Hoochie Coochie Man" Berry Oakley - basso, voce in "Hoochie Coochie Man" Jai Johanny Johanson - batteria, congas, timbales, percussioni Butch Trucks - batteria, timpani
Anno: 1970 Label: Capricorn Records Genere: Rock, blues, southern rock
Revival – 4:04 (Dickey Betts) Don't Keep Me Wonderin' – 3:40 (Greg Allman) Midnight Rider – 3:00 (Greg Allman) In Memory of Elizabeth Reed – 6:54 (Dickey Betts) Hoochie Coochie Man – 4:54 (Willie Dixon) Please Call Home – 4:00 (Greg Allman) Leave My Blues at Home – 4:15 (Greg Allman)
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