Dopo i Metallica sinfonici e paurosamente dark dagli Apocalyptica e il Paolo Conte riveduto e aggiornato degli Avion Travel è la volta del Bob Dylan per clarinetto e contrabbasso.
I Jewels and Binoculars, l’ultima creatura del celebre clarinettista Michael Moore, non sono altro infatti che una band-tributo al grande cantautore statunitense, la quale si propone il nobile fine di rivistare in chiave jazz canzoni che hanno scandito e raccontato, come nessun altro fu in grado di fare, contraddizioni e utopie della società americana messa in ginocchio da quel suicidio ideologico che fu la guerra del Vietnam. Involontariamente, Bob Dylan si ritrovò quindi a rappresentare una sorta di profeta della working class, un testimone critico di due decenni di storia a stelle e strisce e la sua musica rimase inesorabilmente legata a questa volontà di dire ciò che non si doveva dire. Un anticonformismo così al limite del disadattamento sociale poteva però sopravvivere solo in quell’ambito popolare in cui mossero i primi passi gli antichi eroi del blues e del country e non tra gli innumerevoli e rigidi clichè della più “aristocratica” e colta tradizione jazzistica. Questa incompatibilità è quindi alla base del difetto principale di Ships with tattooed sails, il quale riproduce fedelmente ogni minima sfumatura cromatica dei brani selezionati (senza tralasciare un importante tocco personale), ma fallisce nel tentativo di riprodurne la carica emotiva ed il potenziale espressivo. Non bisogna però incappare nell’errore di colpevolizzare i musicisti, Michael Moore in primis, per questa mancanza. Alla base di questo tentativo di rompere ogni vincolo stilistico non vi è infatti un semplice desiderio di mettersi alla prova o di dimostrare il proprio talento confrontandosi con quanto di più complesso, bensì una profonda e viscerale passione per la musica di Dylan, passione la quale non può essersi sviluppata senza la piena consapevolezza di ciò che essa comunicava e comunica tutt’ora. A chi consigliare questo lavoro? Di sicuro piacerà agli amanti del jazz puro e da camera, i quali magari si ricorderanno di aver ascoltato qualcos’altro oltre che a Django Reinhardt o Dave Brubek, per tutti coloro che sono cresciuti con il menestrello di Duluth … questo disco rappresenta l’occasione, sempre più rara oggigiorno, di ascoltare qualcosa di familiare e di diverso allo stesso tempo. |
Michael Vatcher: Batteria, percussioni Anno: 2007 |