A volte ci sono dischi che nascono in maniera del tutto naturale e spontanea … La scheda di presentazione di Void, primo lavoro dei The RedZen, ci rivela che alla band sono bastate appena sei ore in sala prove per avere a disposizione una grande quantità di materiale sonoro sul quale lavorare. Il gruppo nasce nel 2009 dalla collaborazione tra Roberto Leoni, Ettore Salati e Marco Schembri (in passato tutti componenti dei The Watch) ai quali si aggiunge successivamente il virtuoso tastierista Angelo Racz. Alcuni mesi dopo, però, Schembri abbandona la band, lasciando il posto al bassista Nicola Della Pepa. Tutti i protagonisti di questo progetto sono musicisti di grande esperienza, noti soprattutto nell’ambiente del prog–fusion italiano ed internazionale (si ricordano le collaborazioni con Karl Potter, Alex Càrpani, Atlantis 1001, Archangel, ma anche svariati concerti in tutta Europa, Stati Uniti, Sud America e Giappone). Le stupefacenti melodie nate durante le prime session di furiosa improvvisazione sono state in seguito arrangiate e rielaborate fino a conquistare la giusta forma. A volte ci sono dischi che hanno una marcia in più e colpiscono al primo ascolto … Void si apre con “Cluster”, che con il suo giro di synth ipnotico ci trascina in un prog moderno e dal ritmo incalzante. “Hot Wine”, parte con uno slap di basso che riecheggia il sound di Stanley Clarke; durante il brano chitarra e tastiere giocano a scambiarsi le partiture muovendosi su un tappeto ritmico in “battere e levare” che lascia inebriato l’ascoltatore. “Slapdash Dance” è una miscela di suoni e colori, le atmosfere variano in continuazione e l’uso del sitar dona un tocco esotico a questo brano dai mille volti. “Alexa in the Cage”, interpretata dalla voce pulita di Joe Sal (fratello del chitarrista Ettore Salati), si distingue per essere l’unico pezzo cantato e per l’operato eccellente del basso; il brano richiama, vagamente, qualcosa dei primissimi lavori dei Dream Theater. “Into the Void” è emozionante, con una stupenda introduzione di pianoforte, il ricco fraseggio della chitarra e la continua progressione di tutti gli strumenti (si ascolti il passaggio dove la batteria raddoppia i colpi ed in generale tutto il lavoro della sezione ritmica). “Who's Bisex?” riporta alla mente gli Area (quelli di “Acrostico in memoria di Laio”), ma anche il jazz rock di Weather Report ed Allan Holdsworth. Il brano “Return to Kolkata” (Ritorno a Calcutta) è impregnato del miglior prog anni settanta, in primis i Genesis di "Supper’s ready”, “Cinema Show” e “Firth of Fifth”; il sitar, gli arpeggi, le tastiere, il mood del basso ed il superbo tema portante della chitarra solista creano il capolavoro di questo disco. “Spin the Wheel” si segnala per le atmosfere alla Goblin, i passaggi pianistici alla Keith Jarrett, alcuni divertissement del synth ed una bella chitarra rockeggiante. Chiude il lavoro la versione strumentale di “Alexa in the Cage”. Ci troviamo dinanzi ad un’opera matura, curatissima nei suoni (belli e profondi) e negli arrangiamenti, carica di feeling e suonata con grande gusto e tecnica (non dimentichiamo mai che in Italia ci sono ottimi musicisti e per trovare dischi di valore non occorre andare a cercare sempre all’estero). Si suggerisce di soffermarsi ad ascoltare (meglio se in cuffia e con gli occhi chiusi) la prova svolta da ogni singolo strumento per scoprire sempre, e con sorpresa, un particolare nuovo nascosto tra le pieghe delle complesse trame sonore intrecciate dalla band. A volte ci sono dischi che nascono in maniera del tutto naturale e spontanea e a volte ci sono dischi che hanno una marcia in più e colpiscono al primo ascolto, Void rientra in tutti e due i casi citati. 90/100
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Ettore Salati: Chitarre, sitar e dulcimer Anno: 2011 |