L'attesa è finita. Si dissolvono in questa nuova uscita discografica sia tredici anni di assenza dei Porcupine Tree dalle scene musicali mondiali, sia le contemporanee (felici) esperienze soliste e di gruppo dei membri della band, Steven Wilson in primis (sebbene, a dirla tutta, per quanto concerne quest'ultimo, "The Future Bites" si discosta troppo repentinamente dalle care e accattivanti soluzioni progressive).
Partiamo dal titolo: per noi allude alla “Chiusura” di un periodo (non è dato sapere quale, se quello pandemico o quello solistico) e alla “Continuazione” di un percorso mai realmente interrotto (giacché, come noto, l'organico inglese non si è mai sciolto ufficialmente). Questo lavoro ci riporta ai fastosi tempi di “Signify” e di “Stupid Dream”, con brani caratterizzati in parte dai tratti ritmici ipnotici di un basso piuttosto determinato e di una batteria poliedrica e seducente, in parte dalle delicate melodie acustiche dominate dalla rediviva chitarra di Wilson, intrecciate magistralmente dalle costruzioni architettoniche delle tastiere di un Barbieri al meglio delle sue possibilità, anche come co-autore di alcuni brani. Il tutto appare amalgamato con disinvoltura attraverso interessanti e coraggiose sperimentazioni elettroniche, mai fini a sé stesse. I suoni sembrano la colonna sonora di un sogno, evocando immagini, atmosfere, suggestioni che il leader riesce, come usualmente, a contestualizzare con sapienza e bravura, supportata dalla paziente, a tratti finanche pignola, ricerca della perfezione. Sette i brani (che diventano 10 nella extended edition): tra i migliori, impossibile non citare il brano che ha lanciato il disco, “Harridan”, possente e spumeggiante, con una rudezza ritmica (anche legata ad un basso sporco e aggressivo suonato dallo stesso Wilson), che poi si ritrova anche in “Chimera’s Wreck” chiosa conclusiva che, con la sua incalzante progressione, indaga sull’autodeterminazione degli esseri umani e sulla loro capacità di dare seguito ai sogni adolescenziali (le chimere). Abbiamo citato il basso e dobbiamo doverosamente rispondere alla domanda ormai incalzante afferente al mancato coinvolgimento di Colin Edwin, storico bassista della band. Ci soccorre lo stesso cantante che, intervistato il 16 giugno 2022 da Paul Sinclair per Super Deluxe Edition, così giustifica il mancato coinvolgimento del musicista: "Non c'è davvero una grande storia dietro. Ci sono molte piccole cose che hanno cospirato per rendere questo progetto così come è. Penso che la prima sia stata la vera genesi del progetto, nato da un mio passaggio a casa di Gavin per una tazza di tè. Lui mi ha poi suggerito di fare una jam ed io, guardandomi attorno, ho visto che non aveva una chitarra, ma un basso. Allora l'ho preso in mano e penso che una delle primissime cose che abbiamo iniziato a suonare assieme sia stato il groove inziale di "Harridan", che apre il disco. Poi abbiamo fatto altre session in cui non mi sono nemmeno preso la briga di portare una chitarra: mi stavo divertendo a suonare il basso. Quando prendo in mano un basso, come fanno del resto molti, tendo a suonarlo come un chitarrista, quindi faccio un sacco di cose piuttosto alte, suono melodie, suono accordi, cose che forse un "vero bassista" potrebbe non pensare di fare. E così, i fondamenti stessi del disco, la base stessa del disco, il DNA da cui proviene il disco, sono stati costruiti da Gavin e me, che suonavo il basso nel mio stile, che è molto diverso dallo stile di Colin. Quindi, in questo senso, è diventato un po' un fatto compiuto: quando avevamo dato vita a tre o quattro canzoni, è venuto spontaneo dire: "ok, immagino di essere il bassista di questo disco, allora". Ma altre cose hanno influito: nessuno di noi ha sentito Colin per anni. Siamo andati tutti per la nostra strada nel 2010 ma sentivo regolarmente Richard e Gavin: "Quando faremo qualcosa di nuovo?", "Dovremmo stare insieme?", "Dovremmo cenare?", "Dovremmo prendi una tazza di tè?". Non ho mai sentito Colin e ancora non l'ho sentito. Lui non ha mai spinto in modo proattivo per essere coinvolto in qualcosa di nuovo. Oltre a tutto questo, per come la vedo io, il nucleo creativo della band è sempre stato composto da noi tre: l'interesse di Gavin per la batteria complessa, i tempi in chiave, i poliritmi; l'enfasi di Richard sul sound design e sull'esecuzione della tastiera; poi ci sono io, che filtro queste due cose con la mia sensibilità da cantautore. E ancora, tornando all'inizio, i Porcupine Tree sono partiti come un progetto solista e all'epoca suonavo il basso. Nei primi tre album lo suonavo, così come in alcuni brani nel periodo intermedio, quando volevo imprimere maggiormente il mio stile, uno stile più aggressivo, più orientato alla chitarra, come si sente nelle tracce di "In Absentia" (2002) e "Deadwing" (2005)...". Gli fa eco lo stesso Colin Edwin che, appena una settimana dopo, riferisce a Stephen Humphries del magazine Under The Radar: "Non avevamo litigato, non c'erano altre tensioni ed eravamo in contatto occasionalmente per varie cose, principalmente ristampe o affari, ma da tempo non c'era stata alcuna indicazione o accenno di alcuna nuova attività della band, sessions o qualsiasi possibilità di riattivazione. La mia band O.R.k è stata in tour con i Pineapple Thief nel 2019 [la band di Gavin Harrison. NdR] e siamo andati tutti d'accordo; non c'è stata alcuna menzione su eventuali nuove cose dei Porcupine Tree (.). Quindi è stata un sorpresa per me, nel marzo 2021, durante il lockdown, ricevere un'e-mail da Steve che mi diceva che c'era un nuovo album ma, dato che aveva già suonato tutte le parti di basso, non avevo alcun ruolo nel nuovo progetto. Subito dopo, l'avvocato di Steve si è messo in contatto. Da allora non ho più avuto contatti con nessuno". Tornando all'album nello specifico, riff e melodie sembrano rinascere dal passato e farsi strada combattendo, a tratti dominando la batteria di Harrison che talvolta spinge per predominare, prendendosi tutta la scena. E quando le atmosfere si fanno più intimiste, i risultati permangono su livelli di analoga eccellenza: “Dignity”, ad esempio, è introdotta da suoni ambientali ed è sublimata da una voce angelica (racconta dei fallimenti senza rimedio), mentre l’intrigante “Of The New Day”, mescola “suoni sicuri”, evocati anche dall’ottimo timbro vocale di Wilson (che pare non subire gli effetti degli anni che passano inesorabili), con strappi elettrico-acustici che tendono a determinare atmosfere sempre in divenire. “Rats Return” rappresenta forse il (più riuscito) tentativo di percorrere nuove strade, abbracciando nuove sonorità, con una ossessione ritmica piuttosto ricorrente e una linea vocale raddoppiata, sublimata da “doppi digitali” di retaggio chiaramente elettronico. Ci sono poi sperimentazioni vere e proprie e raffinate sensibilità ambient, rispettivamente palesate in "Herd Culling" e “Walk The Plank”. In definitiva, un album eccellente che continua il viaggio di attualizzazione del progressive rock degli anni ’70, trovando metriche e soluzioni che avvicinano suoni del passato al gusto moderno. E' un disco che, proprio per questo motivo, è unico nel suo genere: a nostro modesto avviso, dovrà necessariamente avere una “Continuazione” senza attendere altri tredici anni ed una pandemia a catalizzare gli sforzi. Da non perdere.
|
|
Steven Wilson - Voce, Chitarra, Basso Gavin Harrison - Batteria, Percussioni Richard Barbieri - Tastiere, Sintetizzatori
Anno: 2022 Label: Sony Music Genere: Prog Rock
Tracklist: 01. Harridan 8:07 02. Of The New Day 4:43 03. Rats Return 5:40 04. Dignity 8:22 05. Herd Culling 7:03 06: Walk The Plank 4:27 07. Chimera's Wreck 9:39
|