

Scritto da Max Casali
Sabato 11 Febbraio 2017 22:02

Da tempo, gira la convinzione che ormai si riscontrano rari episodi di canzoni di protesta, come se l’epoca d’oro fosse rimasta inchiodata al cantautorato anni ’70. E’ voce che, sinceramente, mi irrita non poco di fronte a lavori come questo dei Nadiè . Niente scuse signori: qui c’è una cristallina invettiva che riguarda tutta la nostra sfera esistenziale demolita dal volgare, dall’annegamento preoccupante di valori morali ed estetici. Piuttosto, prendetevela con la pigrizia dilagante che ha fatto perdere il fascino della ricerca e della scoperta, reo anche il Dio-denaro, elargito dalle major discografiche, che ha burattinato le radio manovrandole con il business dei soliti noti, affogando grandi talenti indie. “Acqua alta a Venezia” affila le lame della denuncia con tagliente lucidità e ghigno beffardo, nel tentativo (riuscito) di emergere e galleggiare a testa alta nel mare degenerativo dell’etica. Il quintetto catanese apparecchia un desco imbandito di rabbia al vetriolo, senza che le mandano a dire ma piuttosto esponendosi con aitante sicurezza senza timori di risultare anacronistici. In aggiunta, il loro indie-rock ha indubbia originalità, legata alla grande trovata di offrire lunghe tratte strumentali per evidenziare che va data voce anche a note sintomatiche che rispecchino la prerogativa ideologica. Si capisce subito l’antifona con “Conigli” e “In discoteca” con chitarra e folate di vento che partono da lontano per poi spingersi fino a fragori tipici Coldplay , con finali sontuosi. Una leggera calma sembra arrivare con “Breve esistenza di un metallaro”: iniziale giro di piano alla Lennon che conduce ad una seducente maestosità sonora, dall’indiscutibile fascino. C’è aria di tanto malessere? Certo che si ! Quindi meglio non tenersi dentro nulla e piuttosto vomitare più rabbia possibile con tracce blasfeme di “Dio è chitarrista”, decisamente il brano con vertici di grande rock.
|
Leggi tutto...