Scritto da Fabio Busi Lunedì 26 Marzo 2012 20:40 Letto : 2510 volte
O meglio, questa era la mia idea fino a quando ho ascoltato Noctourniquet. La fertilità creativa di Omar e Cedric non aveva mai richiesto tre anni per dar vita ad un disco (senza contare i lavori da solista o i progetti paralleli che toglievano tempo); tale tempistica va soppesata senza superficialità poiché può essere sintomo di un’opera costruita con grande oculatezza, minuziosamente levigata, soppesata al milligrammo. Ed infatti l’ascolto non smentisce la supposizione: il progressive torna preponderante, le composizioni si articolano su strutture più ambiziose rispetto a quelle del 2009, altamente rifinite, complesse, ma – notizia clamorosa – senza mai scadere nella gratuità anarchica degli episodi peggiori. I lunghi tempi morti di Amputechture sono evitati come la peste; le canzoni sono state concepite con grandissima perizia per evitare strutture eccessivamente squilibrate e seguire invece un andamento più classicamente progressivo, riccamente articolato, sì, ma digeribile, assimilabile dall’ascoltatore senza troppa fatica. Insomma i Mars Volta entrano a pieno titolo nell’alveo della migliore tradizione prog, equidistanti dalle acrobazie impossibili di Frances The Mute così come dalle brutture di alcuni pezzi di The Bedlam in Goliath. A proposito va anche detto che la lezione dell’ultimo disco non è stata inutile: Cedric ha perfezionato il suo stile canoro e ha finalmente imparato a scrivere melodie valide: in questo senso, i primi passi avanti furono fatti proprio col disco del 2009. A ciò si aggiunge il ritrovato splendore creativo, che fa sfoggia di sé fin da subito, nei primi cinque, meravigliosi brani. “The Whip Hand” apre le danze in grande stile, con i suoi synth tonanti a scandire la rinascita; “Dyslexicon” tocca vette inusitate, con i suoi tumulti ritmici ad infrangersi su vocalizzi celestiali; “Empty Vessels Make The Loudest Sound” rallenta i tempi, ma non smorza la creatività: arcobaleni melodici che sembrano ripetersi in eterno, sormontati in coda da una chitarra spaziale. “The Malkin Jewel” è tutta di Cedric, che scava nei meandri del suo diaframma e poi esplode epico, si chiude malinconico e riparte violento: totalizzante. La perla più preziosa è però “Aegis”: un distillato di talento purissimo, irraggiungibile, inspiegabile, semplicemente da venerare. È una di quelle canzoni la cui bellezza non si può descrivere, si può solo amare. “Lapochka” si crogiola in ombreggiature dreamy e ricami pregevoli, cesellati con gran classe. “In Absentia” ha del clamoroso: un viaggio onirico, scandito magnificamente dalla batteria isterica di Deantoni Parks (fondamentale nel ridare vigore alle aspirazioni progressive della band) e costellato da gemme sonore preziose. L’atmosfera si fa sulfurea, le eco si rincorrono in un gioco diabolico, la voce è quasi nascosta dal rimbombo. Dopo cinque minuti il baccanale finisce e si riparte da zero, con i raggi del sole che squarciano le tenebre. Dopo la metà del disco l’ispirazione viene un po’ meno e troviamo episodi meno interessanti, non scadenti, ma privi di trovate particolarmente originali. Le melodie soffici e lineari di “Imago”, “Vedamalady” e “Trinkets Pale Of Moon” non tolgono di certo valore al disco, semmai fanno da contorno ai pezzi forti; seguono i dettami del nuovo corso melodico della band senza aggiungere quel quid di originalità che è proprio la cifra caratteristica di Noctourniquet. In “Molochwalker” Cedric si lascia prendere un po’ la mano coi vocalizzi fastidiosi, ma è l’unico neo di una prova pressoché perfetta. La title track riprende in mano le strutture più complesse della prima parte; la batteria densissima di Parks fa da controparte ai vocalizzi dolci e ad una ragnatela fitta fitta di sintetizzatori e chitarra dilatata. La conclusiva “Zed And Two Naughts” assomma un po’ tutte le caratteristiche del disco, ma senza metterle a fuoco troppo bene. Forse si poteva optare per una tracklist più snella. Ciò che conta è che con Noctourniquet i Mars Volta tornano ad insegnare il verbo del progressive contemporaneo: lungo gli anni sono certamente cambiati, fino ad assumere una fisionomia sonora lontanissima da quella iniziale, incarnata in De-Loused In The Comatorium. La carica hardcore è venuta meno, in favore di un gusto sempre più raffinato per la melodia. Dopo una serie di dischi sbagliati in parte o del tutto, Omar Rodriguez-Lopez e soci sono finalmente riusciti a creare un’opera matura, equilibrata, complessa ma anche classicamente “bella”, piacevole, pensata e prodotta con oculatezza. Ci sono ancora delle imperfezioni, ma la strada intrapresa sembra quella giusta. 74/100
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Omar Rodríguez-López: Chitarra, produzione Anno: 2012 |