E' incredibile che, per anni, nessun libro dedicato ai Porcupine Tree sia stato pubblicato in Italia. Sopperisce per ben due volte Enrico Rocci, medico torinese con la passione per la musica: il suo "Il culto dell'albero porcospino - Storia, sproloqui e ricordi dei Porcupine Tree", già pubblicato qualche anno fa, viene oggi edito per Officina di Hank in una edizione largamente aggiornata che sta già riscuotendo alti consensi, con recensioni positive, tra le altre, sulla arcinota piattaforma Amazon. Lo abbiamo incontrato per una lunga ed interessante chiacchierata...
Enrico Rocci – Perchè non ce n’era neanche uno, perlomeno in italiano. Avrei potuto risponderti in questo modo in occasione della prima pubblicazione del testo, nell’aprile del 2018. A dirla tutta, nel dicembre 2017, era uscito "Time Flies" di Rich Wilson, ma in lingua inglese. Ricordo, ai tempi, diversi commenti di lettori e fan entusiasti, perché finalmente qualcuno aveva realizzato un libro sul loro gruppo preferito. Ovviamente non lo scrissi dopo una mera ricerca di mercato, dietro c’era la mia passione smodata per i Porcospini e la consapevolezza di avere qualcosa di personale da raccontare, che riguardava anche amici e personaggi legati indissolubilmente alla storia del gruppo in Italia, ovvero nel Paese che li ha molto presto adottati, sino a convincerli a registrare proprio qui da noi il primo live ufficiale, "Coma Divine", testimonianza delle tre trionfali serate al Frontiera di Roma, nel marzo 1997.
A&B – Hai avuto modo di contattare membri correnti o ex membri della band? Enrico Rocci – No, purtroppo: nessun numero di cellulare di Steven Wilson o Richard Barbieri e neppure indirizzi mail… questa è una biografia “non autorizzata” ma onesta e ruspante. Con loro, comunque, ebbi contatti sporadici ai concerti, ai bei tempi. Devi sapere che nel 2009 pubblicai un romanzo noir dal titolo "Volevo solo uccidere i Porcupine Tree", che vedeva i musicisti comparire “in carne e ossa” nella storia. Anche da questo si può desumere quanto sia in fissa con la band… In quell’occasione chiesi ufficialmente il permesso a Steven: ricevendo in risposta un’espressione perplessa e un laconico “Ok, good luck”. La cosa, però, dovette un po’ turbarlo, forse mi prese per pazzo. Fatto sta che, poco dopo, mentre posava per una fotografia insieme a tre miei amici e fan storici, si accorse che anch'io li stavo immortalando, nello stesso istante. Con la mia usa e getta di carta, dettaglio che non poteva che confermare una certa bizzarria. Beh, la foto ritrae i tre ragazzoni che sorridono e guardano in macchina, mentre lui, preoccupato, è rivolto nella mia direzione. Ma, benedetto figliolo, cosa credeva, che gli stessi sparando? L’immagine in questione è ovviamente presente nel libro.
A&B – Tornando a tempi recenti, ti chiedo se c’è uno scoop che si nasconde nelle pagine del volume... Enrico Rocci – Ci sono notizie assai curiose, che peraltro restano alla portata di tutti, purché disposti a ricerche certosine e alla traduzione di testi. Così, si può per esempio trovare la spiegazione delle virgolette presenti nel titolo di “Light Mass Prayers”, uno dei brani più strani e atipici dei Porcupine Tree, da "Signify". Dietro, c’è una storia di fantasmi, una di quelle che hanno sempre affascinato Steven Wilson, anche se l’autore accreditato per il pezzo è il primo batterista, Chris Maitland (pezzo che, curiosamente, non contiene la batteria). Restando sullo stesso album, viene risolto il mistero della copertina, con l’immagine di una ragazza, dai tratti orientali e dall’innocente vestitone, appesa alle corde in stile bondage giapponese: nella mia precedente edizione del libro si era detto, attingendo da fonti che sembravano attendibili, che si trattava di Terumi, fidanzata giapponese di Steven. E invece… Interessante, poi, è la storia di "In Absentia" e dell’avventura americana dei Porcupine, che condusse all’agognato contratto con una major (la Lava/Atlantic). Affrontarla significa parlare anche del perché dal gruppo se andò il citato Maitland: nessuno scoop, tutto presente nelle splendide note che accompagnano l’edizione deluxe di “In Absentia” ad opera di Stephen Humphries, di fatto il loro vero biografo. Infine, giungendo ai giorni nostri, ci s’imbatte in una miriade d’interviste che dimostrano quale impatto mediatico e quale promozione abbiano ricevuto con l’ultimo disco, pur restando sempre in quel limbo che sfiora soltanto il mainstream. E allora si prova anche a scavare, un minimo, sul mancato coinvolgimento (doloroso) dello storico bassista Colin Edwin, al di là delle giustificazioni ufficiali.
A&B – Come ti trovi con “Officina di Hank”? Enrico Rocci – Bene! Non potrei rispondere diversamente: li conosco dal lontano 2005, quando erano da poco nato come Chinaski Edizioni, e siamo diventati amici. Nel 2020 ci sono stati cambiamenti di equilibri interni e di persone: purtroppo lo staff, già non proprio “ipertrofico”, si è ridotto e c’è stato un cambio di marchio, passando appunto ad Officina di Hank (nome che ha mantenuto il filo rosso con il mondo e lo spirito di Bukowski). Non c’è stato, però, un cambiamento a livello di sostanza, e questo è importante. "Quelli dell'Officina" sono persone guidate da grande passione che si sbattono, che concedono libertà all’autore (cosa che ho sempre apprezzato e ritengo fondamentale) e che – come tutti, in questo ambito specifico e non soltanto – stanno affrontando i problemi di stretta attualità, a partire dal prezzo della carta in costante lievitazione, passando per una burocrazia che si vuole limitare solo a parole e molto altro. Forza Officina, io e gli altri autori siamo con voi!
A&B – Come stanno andando le vendite del libro? Enrico Rocci – E chi lo sa? Non ho proprio il termometro della situazione. Posso, pessimisticamente, dirti che se le vendite sono legate alla promozione… beh, la situazione non è ottimale. La casa editrice fa davvero quello che può, ma l’agenzia – in precedenza è già stata cambiata più di una volta – che si occupa della promozione online non ha certo fatto quello che doveva: a distanza di tre mesi dall’uscita non c’è un sito che riporti la nuova scheda/sinossi, ove si spiega la ragion d’essere del libro, e ovunque viene rimbalzata quella vecchia, di quattro anni fa. Inoltre, l’immagine di copertina è stata aggiornata solo di rado. Quando ho potuto, ho dato indicazione di rivolgersi al sito ufficiale della casa editrice (officinadihank.com), l’unico dove compare la scheda della nuova edizione e dove il libro è comunque acquistabile, scontato. Sono tempi difficili in cui la promozione viene affidata in buona quota all’autore, il quale a sua volta fa quello che può. Permettimi, però, di citare un personaggio che in questo ambito offre un notevole aiuto e che so essere un amico comune: Fabio Rossi. Fabio, anche lui autore presso Officina di Hank (e instancabile recensore, agitatore culturale etc), è una forza della natura: ha inteso che “i libri, frutto di profondo impegno, bisogna mantenerli vivi” e si sbatte alla grande al riguardo. Per sé e per gli altri.
A&B – Quali sono gli sproloqui a cui alludi nel titolo? Enrico Rocci – Gli sproloqui sono parte ineliminabile del mio modo di scrivere. Vengono fuori, dotati di vita propria, e rischiano di sfociare nel cazzeggio o, peggio, nell’autoindulgenza. Dunque, devo pur sempre tenerli un po’ a bada… compaiono sotto forma di ricordi, alimentati da esperienze mie e di amici nonché personaggi del libro; oppure sono richiami cinematografici che aggiungono una suggestione visiva, o derive che provano ad alleggerire una narrazione mai troppo tecnica e spero non arida.
A&B – Quanto prog sono, per te, i Porcupine Tree? Enrico Rocci – Quanto? Tanto… se il prog consiste nel mischiare differenti generi e stili, nel cambiare più volte atmosfere e tempi nel singolo brano, beh, con i Porcupine ci siamo in pieno. Poi, che a nessun musicista piaccia essere etichettato e finire in una casella, dal prog allo stoner, è un altro discorso.
A&B – Cosa pensi del restyling operato da Wilson nei confronti dei grandi del passato a firma di Yes, Jethro Tull, ecc? Enrico Rocci – Steven Wilson è stato sempre ossessionato dal suono. Molto presto ha deciso che sarebbe diventato non soltanto un musicista, ma anche un produttore musicale, un ingegnere del suono e, infine, un restauratore. Così, dopo aver messo mano con grande successo ad un’opera quale "In the Court of the Crimson King", ha iniziato ad essere parecchio richiesto, in ambito prog e non solo. Beh, penso che questo abbia dato la possibilità di scoprire ulteriori tesori nascosti all’interno di veri capolavori, grazie alla sua capacità di ricostruire il suono senza snaturarlo, e che tutto ciò abbia anche influenzato la direzione della sua attività solista. Proprio qualche giorno fa, un amico mi raccontava che ascoltare il remix di un album dei "Tears for Fears" operato da Wilson gli aveva permesso di captare strumenti che prima non erano emersi. Non ti posso, però, esprimere una mia opinione specifica al riguardo, perché non mi sono mai dedicato ad alcuno di questi lavori. Si tratta molto spesso di dischi per i quali avevo già operato la trafila cassetta-vinile-CD – magari comprato in occasione del “trentesimo anniversario” – e, pur essendo un vero drogato di musica, ho sempre optato per cose nuove. Ho ricercato la bellezza in tanti, differenti, ambiti, trovandola sistematicamente. È probabile che quando “sento” musica, prevalga nettamente l’attività del mio emisfero cerebrale destro, quello deputato all’ascolto globale, alla melodia, all’emozione. Inoltre, non dimentichiamolo, non sono un musicista.
A&B – Cosa pensi di “Steven Wilson. Deform to form a star. Una vita in musica”, l'unica biografia a suo nome?
A&B – Ultime parole per i lettori di A&B… Enrico Rocci – Un caro saluto a tutti! Leggete, leggete, ovviamente anche di musica, siate curiosi e ricercate i tesori nascosti nelle pieghe del nostro underground. Sostenete le band nostrane, le autoproduzioni, andate ai concerti, conoscete di persona i musicisti. Ne vale la pena. E, infine, non credete più di tanto a quello che racconta Steven Wilson: poco prima del tour autunnale (e dunque del concerto di Milano) asseriva che “probabilmente sarebbe stata l’ultima volta in cui si potevano vedere i Porcupine Tree sul palco”. Invece, torneranno nel giugno 2023 per due date, a Roma e Padova… meno male!
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Il culto dell'albero porcospino.
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