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Sanremo: declino e caduta della “popular music”

Sanremo: declino e caduta della “popular music” nell’Italia dei populismi.

L’ultimo Festival di Sanremo, vertice delle messe in scena mediatiche della cultura popolare mainstream e generalista, ha messo in evidenza una serie di contraddizioni sopite nella società italiana attraverso gli incidenti di percorso che l’hanno attraversato.

Popular music e televisione generalista

L’evento sanremese non è altro che un format generalista che propone al mercato una passerella di produzioni rappresentative del panorama della musica commerciale prodotta in Italia. 
Un contenitore nel quale al filone melodico tradizionale si aggiungono una serie di affluenti che rappresentano le nuove tendenze con ambizioni mainstream presenti nella società di massa del momento, nuovi generi che vengono raccolti nelle loro versioni più adattabili al metro nazionalpopolare.
Il Festival di Sanremo è solo il collettore musicale più noto di un sistema mediatico mainstream, fatto di format di fascia prime-time trasmessi dai media nazionali, e mette in luce, più di altri format, eventuali collisioni fra le tendenze musicali del pubblico e la morale che regolamenta il bon-ton e le degenerazioni trash consentite ai prodotti televisivi di quel tipo. 

I vari “direttori artistici” sono arbitri in una camera di compensazione dove convergono gli interessi delle multinazionali discografiche, della rete televisiva, degli sponsor, dei potentati produttivi ed editoriali, della SIAE e della politica, e sono di conseguenza costretti a conciliare esigenze promozionali, economiche e mediatiche diverse, spesso in aperta collisione fra di loro, come in questa edizione si è nuovamente palesato.
La maggiore contraddizione è nel posizionamento del format televisivo rispetto ai target ai quali si rivolgono i prodotti musicali. 
Questa suddivisione è divenuta un crogiolo di conflitti dal momento in cui il sistema di vendita su supporto è crollato e si è frammentato in nicchie con modalità di consumo diverse. 
Il sistema industriale discografico e il suo indotto mediatico, oggi, traggono i loro profitti, a seconda del segmento preso in considerazione, da catene del valore completamente diverse pur trattandosi della stessa categoria merceologica.
Da un lato c’è la fascia giovanile, che consuma musica liquida, in particolare in streaming (sia audio che video), vive nei social e assiste ai talent e a cui l’industria propone prodotti di derivazione hip-hop/trap adattati, dopo vari tentativi non riusciti passati, al gusto medio italiota.
In questo segmento il prodotto ottiene il proprio riconoscimento e si consolida tramite la rete ma punta ad espandere i profitti tramite i diritti e i compensi della televisione.  
Dall’altro lato ci sono i pubblici “tradizionali” di fascia di età e gusti diversi, alcuni sono solo fruitori del prodotto televisivo, ed è interesse degli inserzionisti pubblicitari che restino sintonizzati, altri appartengono a piccoli segmenti di mercato discografico residuo, legati al mondo dei cantautori o del rock, ad esempio.
Le produzioni dedicate a questi settori storici si sono storicamente appropriate di posizioni di rendita importante dei profitti da diritto d’autore con un presenzialismo dei media consolidato.

Popular music e profitti

Le reti radiofoniche e televisive italiane nazionali, tramite borderò riempiti sistematicamente e contenenti le playlist tramsesse, pagano alla SIAE per ogni esecuzione o riproduzione, in base a fascia oraria e a durata, diritti per milioni di euro l’anno che vengono poi ripartiti. 
Questo bacino, a fronte del crollo delle vendite fisiche, è una delle principali fonti di ricavo per autori, editori, esecutori e detentori dei diritti di riproduzione meccanica (case discografiche).
Ma le reti, quelle televisive in particolari, rispondono anche ad altre logiche, prettamente legate a dinamiche mediatiche, in primis le esigenze degli inserzionisti pubblicitari e poi le logiche politiche, clientelari ed editoriali, sulle quali si inserisce il mercato della produzione musicale come ulteriore elemento.
Le logiche del mercato musicale rispondono anche ad esigenze legate alla specificità dei propri segmenti di pubblico che non sempre sono compatibili fra di loro, anche se, nel corso degli ultimi anni, sono emersi nuovi centri di potere a cavallo fra i due mondi (come quello di “Amici” e del mondo talent). 
Casi come quelli di Sanremo tendono a conciliare i diversi filoni produttivi, tentando spesso a fatica di far coesistere prodotti per teen-ager con quelli tipicamente televisivi destinato a fasce diverse di pubblico e le caratterizzazioni delle diverse produzioni mettono in luce le divergenze che esistono fra i consumatori e gli opinion leader a loro legati.

La morale e la popular music di consumo

Queste divergenze mettono in luce la confusione presente in questo spezzone sub-culturale quando le contraddizioni vengono messe in evidenza. 
La tv generalista di stato è costretta nei suoi format di prime time ad adottare un linguaggio e dei contenuti consoni alla propria natura. Le “trasgressioni” a questo conformismo si sono dimostrate nel tempo inevitabili e nascono sostanzialmente dalla dialettica che si determina dalla coesistenza di prodotti con posizionamenti radicalmente diversi i cui pubblici appartengono a segmenti la cui coesistenza non è sempre possibile. 
I “casi” sanremesi che hanno messo in evidenza il livello di tenuta della soglia di infrazione alle regole del sistema mediatico sono stati sostanzialmente tre, ma sono emblematici di queste contraddizioni latenti: Achille Lauro, Morgan-Bugo, Junior Cally. 
Il primo caso è di semplice classificazione: un esecutore proveniente da un settore della popular music giovanile (la trap), alle prese con un brano di compromesso con il melodico tradizionale, debole qualitativamente, che compensa lo svantaggio appoggiandosi a un’operazione di immagine al limite dell’infrazione consentita dal format, ma già adottata storicamente centinaia di volte da altri in contesti diversi. Il tutto con l’ausilio dell’industria dell’immagine e della moda che coglie l’occasione per promuovere il suo brand name. In effetti queste messe in scena sono consuete nel mondo della moda.
Il secondo caso è di puro gossip, sia che sia stato costruito o meno, e si fonda su una banale, vera o falsa, lite fra due esponenti dell’indie pop-rock, genere tollerato nel format, dal pubblico mainstream marginalizzato, ma al quale queste produzioni si rivolgono comunque a fronte della grande esposizione mediatica.
Il terzo caso mette in evidenza un tema più articolato: ovvero quanto la “popular music”, anche più commerciale e piegata agli interessi economici dell’industria, debba essere riflesso della cultura del segmento di pubblico di riferimento per essere efficace. 
Potremmo leggerlo anche in senso opposto: quanto l’industria, per avere dei prodotti vendibili, debba utilizzare dei contenuti che riflettano il modo di vedere della clientela a cui si rivolge.

Negli anni ’70, i grandi autori del rock esprimevano le contraddizioni della generazione di cui erano riferimento. In quella fase storica la popular music era una vera e proprio controcultura che il movimento giovanile opponeva a quella dominante. 
L’industria, pur di raggiungere dei profitti, veicolava prodotti che erano espressione  di quella controcultura che nei loro contenuti incarnava le contraddizioni e i conflitti realmente presenti in quella fase storica. 
Ad esempio, in quel contesto, uno dei traumi collettivi che attraversava le vite di molti fruitori di quelle produzioni e di molti degli autori, era dovuto al consumo delle cosiddette “droghe pesanti”.
Nei testi dei brani, queste realtà venivano raccontate prima in modo velato (come in “A Hard Day’s Night” dei Beatles ad esempio), poi sempre più palese (come in “Lucy in the Sky with Diamonds”, sempre del quartetto di Liverpool) e poi in modo chiaro e limpido (come in “Cold Turkey” di John Lennon, “Heroin” di Lou Reed, “Cocaine” di J.J. Cale, “Brown Sugar” dei Rolling Stones, etc).
Il contenuto dei testi dei brani del rock svelava i malumori, i drammi e le contraddizioni di una generazione ma non erano i prodotti musicali a generarle, era la società ad esigere che la propria cultura ne raccontasse i drammi e le contraddizioni.
La popular music intercetta, rappresenta, in certi casi palesemente altre volte metaforicamente, la cultura degli ascoltatori di riferimento a prescindere dal valore oggettivo e tecnico del prodotto poetico-musicale. 
In questa logica, i testi “degenerati” dei trapper/rapper italioti di tendenza non sono altro che la raffigurazione della cultura e delle aspirazioni, nel bene e nel male, del settore sociale che vi si riconosce.
Sanremo, quindi, mette in luce non il fatto che parte del pubblico giovanile venga raggiunta da un messaggio degenerato tramite i brani di alcuni autori, belli o brutti che siano, ma esattamente l’opposto.
Ovvero che quei testi, anche solo come aspirazioni irrealizzate e irrealizzabili, mettano in evidenza la cultura dominante in quel pubblico, che si riconosce in quelle parole perché fanno parte del loro modo di pensare e di vedere il presente e che quei personaggi non siano altro che i rappresentati della decadenza culturale di uno strato di popolazione.

 

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