Monocromo assoluto in scena (Dario Gessati), l'opalescenza governa il racconto e ci conduce nella penombra di un vissuto angoscioso, fatto di illusioni che mai compensano assenze ed omissioni. Così la miniatura d'un arredo minimale è cristallizzata nell'inquadratura, frutto d'una callida regia (Andrea Lucchetta), giovevole a trasmettere il profondo turbamento del protagonista. Arturo (Vincenzo Grassi) dialoga e racconta di sé al tempo stesso, muovendo lo sguardo malinconico su una linea del tempo che delinea un tratto di vita breve e tumultuoso, tragico fin dal primo vagito per via della perdita della madre, morta di parto nel darlo alla luce. Il marchio del difetto, per la carenza d'amorosa protezione, sembra segnarlo indelebilmente e ad aggravarne il fardello v'è un antagonista davvero eccezionale, Wilhelm, il padre. Il monologo si dipana sagacemente, il contrasto con i colori sgargianti di un "là fuori mediterraneo e sfolgorante" raccontato dall'autrice Elsa Morante (prima donna ad essere insignita del Premio Strega nel 1957 proprio con il romanzo L'isola di Arturo), è solo una lontana ipotesi che mai s'insinua in questo anfratto diafano. Un'isola lussureggiante è Procida, un paradiso perduto nel quale il giovane, respira e coglie l'essenza della libertà attraverso letture cavalleresche che gli scatenano sogni a occhi aperti. Le costanti compagnie sono il cane, Immacolatella, e un bimbo, Silvestro. La sua fiabesca dimora è il palazzo diroccato di famiglia, cornice perfetta e fonte di fantasiose avventure, dimensione suggestiva questa, nella quale contenere un esondante disagio esistenziale. Totale è l'assenza di figure femminili di riferimento, fatto che sovrasta l'esistenza del bambino e dell'adolescente ma che intanto gli consente di idealizzarne totalmente l'essenza. L'effige sdrucita della madre, poggiata sul comodino della stanza, ne riassume il significato metaforico. Egli comunque, tenta di uscire dal bozzolo dell'adolescenza approcciandosi, senza strumenti sufficienti, al mondo del sesso opposto. La latitanza intermittente della figura genitoriale maschile invece, gli fa assaporare il gusto amaro del disincanto. "Fuori del limbo non v’è eliso": l'abbadono dello scoglio natio, inteso come precoce affrancamento dallo stato di fanciullezza, può rappresentare una emancipazione tanto dolorosa quanto necessaria. Il transito nell'ambito della sfera adulta non rappresenterà beatitudine nè sollievo alcuno. L'acchiappa sogni che penzola dalla finestra regala, a latere, la remota speranza che il sogno sia salvifico. La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 31 ottobre 2024 |
L’isola di Arturo
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