L’opera, tratta dal romanzo di Michele Mari “Io venia pieno d’angoscia a rimirarti”, narra una storia che coniuga elementi di fantasia e spunti reali della vita e della poesia di Giacomo Leopardi.
I protagonisti sono i fratelli Salesio, Orazio e Pilla, figli del conte Monaldo Leopardi di Recanati, i quali, nelle diverse intersezioni temporali, ricostruiscono, tassello dopo tassello, le vicende della loro infanzia, in particolare dell’estate del 1812, funestata da misteriosi e spaventosi eventi. Salesio è uno dei nomi di Giacomo Leopardi, come pure Pilla, richiama Paolina, la sorella più giovane, e Orazio è il secondo nome del fratello Carlo. Ci ritroviamo a vivere quegli eventi intimi e familiari, che verosimilmente potrebbero avvicinarci al mondo del poeta romantico, in cui i piani temporali si alternano continuamente, scanditi dalle luci ora calde (passato) e ora fredde (presente) a rimarcarne il passaggio. La sorella Pilla legge i versi del fratello Salesio ispirati dalla luna, tema tanto caro e ricorrente, ne ammira la genialità ed insieme al fratello Orazio ricordano gli anni della loro prima giovinezza, caratterizzati da studi rigorosi e rigida disciplina, ma anche da tanta complicità e affetto tra i tre fratelli. L’amenità di queste rimembranze s’interrompe al sovvenir loro di eventi tragici che hanno caratterizzato l’estate del 1812: al tempo, Salesio, il maggiore aveva circa 14 anni ed era nel pieno dei suoi “sette anni di studio matto e disperatissimo”. Tre pecore sgozzate, un cane e un bifolco del vicino borgo, i misteriosi delitti attribuiti ad una bestia indefinibile. Attraverso ricerche e ricostruzioni, i tre giovani rimettono insieme frammenti di conoscenze e memorie della vita dei propri avi, arrivando a considerare una possibile doppia natura trasmessa geneticamente in alcuni componenti della famiglia: la licantropia. Sebbene fin da subito s’intuisce la soluzione del mistero, la ricomposizione della storia attraverso indizi è appassionante: si caratterizza come ricerca bibliografica, ricorrendo a saperi antichi ma anche a documenti di famiglia, come ci si aspetta da tre fratelli eruditi e brillanti ed ognuno arriva a definire aspetti diversi della stessa verità. Struggente l’interpretazione di Salesio, in particolare quando declama versi alla luna, esprimendo tutto il suo dolore esistenziale, l’attore non esiste più, è Giacomo stesso che rivive: i sentimenti espressi sono vibranti, il potere della parola è amplificato dal sentire intenso del momento. Dolcissima e delicata, affettuosa, remissiva è Pilla, l’amatissima sorella, nel suo abito sobrio, semplice e impreziosito da bottoni gioiello, mentre Orazio, figura più pragmatica e razionale che mal sopporta gli eccessi del fratello, resta più spigoloso e duro nei suoi giudizi. Una scena semplice, ma curata nel dettaglio, così come si addice ad un teatro singolare e affascinante come TeatroSophia, che ha il gran pregio di immergerci in una narrazione globale, vi si colgono gli sguardi, i sospiri e ogni variare delle espressioni facciali nonchè la grazia dei movimenti, e l’impeto contenuto del dolore, e per quanto l'eloquio sia sofisticato e dal ritmo piuttosto lento e costante, mai si viene a perdere l'attenzione, ma si resta avvinti dalle forbite elucubrazioni. Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 5 aprile 2024. |
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