Le Intermittenze della Morte è un adattamento teatrale del romanzo omonimo di Josè Saramago, portato in scena con la regia di Valentina Cognatti e dalla Margot Theatre Company.
Il nodo essenziale attorno a cui si sviluppa la vicenda è la possibilità di interrompere il naturale ciclo vita morte eliminando quest’ultima. In un paese, senza nome, alla mezzanotte del 31 dicembre si smette di morire, appare realizzarsi per gli abitanti quel desiderio di eternità, nessuno muore più, avvengono incidenti tremendi, moribondi in fin di vita, restano sospesi, vivi ma senza sanare. Al trascorrere dei giorni si manifestano in maniera sempre più allarmante le conseguenze di una tale condizione: i becchini e le assicurazioni non fanno più affari, gli ospedali si riempiono di malati non potendo far nuovi posti, perché chi doveva esser passato a miglior vita non muore più. In un ambiente del tutto speciale, qual è il Teatrosophia, che ha le peculiarità di trasferire lo spettatore in una specie di non luogo, immersivo, quasi una dimensione parallela in cui non è possibile alcuna distrazione, la storia inizia con un immagine iconica, Le fils de l’homme (1964), di René Magritte, in carne e ossa. Un parallelismo dapprima indecifrabile, ma che nello svolgersi dell’intreccio acquisterà sempre maggiore affinità e sovrapposizione. Il quadro di Magritte è afferente alla corrente artistica detta “surrealismo”, in cui elementi reali, appartenenti alla realtà osservabile, vengono decontestualizzati e ricomposti in elaborazioni improbabili, non tanto per un fine speculativo, rimandando a significati concettuali, ma per esplorarne le possibili rappresentazioni, ottenendo una illusione onirica. In parallelo José Saramago fa la stessa cosa, racconta di situazioni, vicende, personaggi verosimili collocati nella rappresentazione di una realtà ricreata, dando alla morte una personificazione. Tutto l’apparato scenografico ripropone l’iconografia magrittiana: i cappotti appesi, l’ombrello con il bicchiere in cima. Si tratta di una trovata personale e geniale della regista, l’unione di letteratura e pittura, di due grandi personalità artistiche in un connubio riuscitissimo, capace di produrre nello spettatore suggestioni oniriche. La Cognatti ci catapulta in un sogno, animato ora dalla bravissima Serena Borrelli, che con la sua straordinaria mimica facciale rievoca le maschere del teatro greco (del dolore, dell’allegria), ora dalla dinamica, agile ed eterea (in particolare quando impersona la morte) Martina Grandin, ora da Alessandro Moser, che si esprime con inaspettata intensità nei panni del violoncellista. L’opera può essere suddivisa in due parti: l’una di carattere narrativo-descrittivo con ritmi concitati e risvolti comici, la seconda più lenta e allo stesso tempo densa e catalizzante, struggente nel finale. Saramago, nel suo romanzo costruito a mo’ di divertissement, non manca di manifestare il suo pensiero sulla politica e sulla religione, tratteggiati in scena in modo beffardo e farsesco. La riflessione sulla morte d’altro canto, ha sulle prime uno sviluppo prettamente razionale, ovvero snocciola le conseguenze negative causate dall’assenza di mortalità con tutte le ricadute sull’economia, la ridefinizione degli spazi urbani, le difficoltà di una popolazione sempre più vecchia e disabile, fino a delinearsi in seguito nella sua personificazione femminile con tratti sussurrati e poetici, nell'incontro con qualcuno su cui la morte sospende la sua azione, dapprima curiosa si lascia in seguito avvolgere da un sentimento sconosciuto e intenso. Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 14 marzo 2024. |
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