Bella messa in scena di un classico della commedia goldoniana, La Locandiera, curata dalla regia di Antonio Latella per un’interprete d’eccezione come Sonia Bergamaschi, moderna Mirandolina alle prese con la gestione della propria vita.
La storia è nota. Racconta di una donna che vuole essere e si sente autosufficiente e agisce con discernimento per il proprio tornaconto, decidendo della propria vita in barba ai desideri dei nobili potenti e dei borghesi arricchiti – innamorati non corrisposti - che popolano la sua taverna. Indispettita poi dall’unico nobile avventore che la tratta con indifferenza, un cavaliere fiorentino che rifugge il genere femminile e i legami affettivi in quanto cause di infelicità certa, per ripicca agisce per entrare nel suo cuore e spezzarlo. Un personaggio avanti con i tempi, se pensiamo che Goldoni l’ha scritto nel ‘700, tanto che per farlo accettare agli spettatori suoi contemporanei fornisce a Mirandolina il confortante e rassicurante stereotipo della seduzione come unica arma per ottenere i propri scopi. La stessa chiave di lettura la si può trovare nel finale, quando il gioco spintosi troppo oltre, la porta a cercar rifugio e protezione in un matrimonio di convenienza con il fedele servo Fabrizio secondo il desiderio – ed il volere - espressole dal padre in punto di morte. La figura di Mirandolina, a una lettura più attuale, ha un potenziale di modernità notevole. Nonostante ciò, Latella ha scelto di rimanere nella tradizione e costruire una regia della commedia utilizzando un testo assolutamente fedele all’originale goldoniano, spingendosi solo ad una ambientazione con mobilia e costumi contemporanei. Uno scarno sfondo adatto a tutti gli ambienti che vivono di pochi oggetti su un tappeto, un tavolo e alcune sedie, che diventano di volta in volta sala da pranzo, camera da letto, ingresso della locanda. A sinistra del palco una pedana da cui si passa per entrare ed uscire dagli ambienti che vivono nella immaginazione degli spettatori. A destra, una cucina in cui la locandiera e i camerieri preparano le pietanze. L’illuminazione è prodotta in modo uniforme da moderni neon, sopra la scena, a cui viene affidato anche il compito di esprimere i momenti di tensione mediante cali improvvisi di tensione e tremolii. Unica concessione alla Venezia settecentesca sono le chopine di Mirandolina, scarpe con le zeppe tipiche dell’epoca per evitare l’acqua alta. Ne risulta una versione scoppiettante e recitata egregiamente senza sbavature dagli attori. Il ritmo del primo atto è notevole; tutti i personaggi si caratterizzano sin dalle prime parole per quella che è la loro parte, trasparenti, immediati. Divertentissimo lo scambio di “gentilezze” tra i due rivali amorosi, il Conte di Albafiorita interpretato da Francesco Manetti, e il Marchese di Forlimpopoli reso da uno strepitoso Giovanni Franzoni. Ognuno con le proprie armi di seduzione richiama la presenza dell’amata locandiera resa viva e toccante da una magistrale Sonia Bergamasco. La sua interpretazione restituisce tutte le sfumature necessarie: la determinazione, la commozione, il rimorso, la preoccupazione… Una donna completa, capace di pensare ed agire in parallelo su diversi piani anche se poi, in fondo in fondo, si presenta al mondo più fragile di quel che si sente: “La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne”. A completare, il misogino Cavaliere di Ripafratta è proposto dall’ottimo Ludovico Fededegni, convincente nel pretendere per quello che dà - e nulla più - e nella metamorfosi verso l’abisso dell’innamoramento con lievi sapori di violenza e prevaricazione. Valentino Villa ci restituisce un cameriere Fabrizio equilibrato nella sua accondiscendenza verso Mirandolina, in attesa dell’inevitabile destino profetizzato dal padre di lei, e Gabriele Pestilli rende efficace la figura del servitore del Cavaliere di Ripafratta, inizialmente come suo scudo verso le donne che lo potrebbero invadere e poi come specchio del suo cambiamento. Divertentissime, infine, anche le due finte dame – Ortensia/Marta Cortellazzo Wiel e Dejanira/Marta Pizzigallo - che arrivano alla taverna vivacizzando le relazioni tra gli ospiti con i loro inganni ed intrighi. Nonostante le intenzioni dichiarate di Latella, la fedeltà al testo ed al contesto del Goldoni ha forse fatto perdere un po’ il potere eversivo della Locandiera, troppo lontana dal sentire di uno spettatore contemporaneo, ma comunque la commedia arriva. L’ironia nei dialoghi, e il perfetto incastro del gioco delle parti funzionano ancora e l’attenzione rimane viva senza fatica per più di due ore, anche in un secondo atto necessariamente più riflessivo. Fino al gran finale con una Mirandolina che apre alle proprie incertezze e debolezze che le fanno “cambiar di stato e di costume” ed affacciata sul proscenio mentre tutto diventa buio le offre al pubblico affinché “lor signori ancor profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e in sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, si ricordino della locandiera”.
La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 21 febbraio 2024.
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LA LOCANDIERA di Carlo Goldoni
regia Antonio Latella
con Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo, Valentino Villa drammaturgia Linda Dalisi scene Annelisa Zaccheria costumi Graziella Pepe musiche e suono Franco Visioli luci Simone De Angelis assistente alla regia Marco Corsucci assistente alla regia volontario Giammarco Pignatiello produzione Teatro Stabile dell’Umbria
foto Gianluca Pantaleo
Teatro Strelher
largo Greppi, 1 - MILANO tel: 02 21126116
ORARIO SPETTACOLI dal martedì al sabato ore 19.30 domenica ore 16.00 Lunedì chiuso
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