Una serata eccezionale all’Elfo Puccini con il Teatro Nō e KYŌGEN portato in scena da Kazufusa Hōshō, il ventesimo Sōke (caposcuola) della scuola Hōshō. La grande sala Shakespeare è completamente piena di lunedì sera, a testimonianza della irresistibile fascinazione che il grande arcipelago orientale da sempre esercita sugli europei.
Il teatro Nō è la più antica arte scenica del Giappone, con una tradizione che prosegue ininterrotta da quasi 700 anni, ed è stato riconosciuto come Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dall’UNESCO. Le opere nō sono drammi lirici con una forte componente spirituale, in cui la peculiare recitazione cantata si unisce ad elementi di danza, mimica e elementi musicali che si sostengono reciprocamente per raggiungere lo yugen, uno stato estetico ed emotivo/piscologico traducibile come il “misteriosamente profondo” oppure “l’incanto sottile”. Una messa in scena tradizionale prevede una intera giornata di teatro Nō in cui vengono rappresentate più opere nō alternate a brevi intermezzi divertenti tratti dal repertorio kyōgen, una forma di teatro più breve, semplice e diretta in cui spesso la comicità diventa veicolo per illustrare emozioni universali e impartire in modo indiretto insegnamenti per una vita armoniosa. La serata di lunedì ha quindi correttamente proposto esempi di entrambi i tipi di opera, cominciando da un breve spettacolo kyōgen intitolato Fukuno Kami, ovvero Il Dio della Fortuna, in cui apprendiamo il segreto della felicità da un dio godereccio e bonario evocato da due amici che festeggiano l’avvento del nuovo anno lunare in un tempio, pregando per avere ricchezza e fortuna e scacciando gli spiriti malvagi con l’antico rito del Mamemaki, un lancio propiziatorio di fagioli fukumame. Non vi racconteremo il segreto insegnato dal Dio, ma ci limiteremo ad annotare come sia appena trascorso il giorno a cui allude l’opera, il 3 febbraio, festa del Setsubun primaverile. Lo spirito leggero della rappresentazione, i costumi relativamente semplici e le frasi di un dio dalla saggezza contadina sono accompagnate da una mimica molto chiara, pochissimi attrezzi di scena e da una onomatopea che sostituisce qualunque apparato scenico e sonoro: un viaggio è una breve passeggiata a semicerchio, il suono possente e profondo delle campane del tempio è rappresentato dall’ampio sincrono gesto a ventaglio chiuso dei due amici che mimano il batacchio ed emettono simultaneamente il sonoro rintocco. Nell’intento originario gli intermezzi kyōgen dovevano soddisfare il palato di un pubblico non colto e preparare gli spettatori alle raffinatezze molto più complesse dell’opera rappresentata subito dopo, in questo caso Aya no Tsusumi ovvero Il Tamburo di saia. L’opera ci viene proposta in quanto una delle più raffinate del repertorio nō, e richiede all’attore protagonista la massima capacità interpretativa nel genere. È la storia dell’amore non corrisposto di un vecchio giardiniere per una delle Consorti dell’Imperatore. Il sentimento impossibile, ma puro e profondo, arriva fino alla nobildonna, che decide di prendersi beffe di questo amore e promette di incontrare il vecchio se questi riesce a far arrivare fino al Palazzo il suono di un tamburo appeso su un albero vicino lo stagno nel parco. Il vecchio prova con tutte le sue forze, ma il tamburo non è fatto di pelle di animale ben tesa, bensì di tela di saia. Tutti i suoi sforzi sono vani ma, pur in preda alla disperazione, perdura fino a quando capisce che mai potrà realizzare il suo desiderio perché la sua amata ha gli ha chiesto qualcosa di impossibile. Allora si uccide, sprofondando nello stagno. Tornerà come uno spirito vendicativo per tormentare la principessa, vecchio ancora, ma magnifico nel suo abito d’oro. La qualità letteraria intrinseca del Tamburo di saia ha dato vita a diverse riletture, tra cui l’interpretazione moderna di Yukio Mishima. Sul palcoscenico dell’Elfo Puccini è evocato, più che replicato, lo spazio teatrale del Nō. A sinistra il piccolo sipario di ricco tessuto a colorate righe verticali affaccia sulla sagoma di luce che disegna l’hashigakari, il ponte, e il butai (palcoscenico), uno spazio quadrato di circa cinque metri e mezzo di lato delimitato da quattro pilastri luminosi. Così il sipario diventa una vera porta sul tempo e sullo spazio, da cui nasce la obliqua linea di luce dell’hashigari sfiorata a piccoli passi dagli attori per raggiungere il butai come i personaggi di certi quadri antichi, che coesistono in tempi e luoghi diversi alla scena principale al centro della rappresentazione. Il ricco coro, l’orchestra e i personaggi riccamente vestiti e con il viso coperto da maschere riempiono uno spazio vuoto il cui il giardino del palazzo è evocato dall’unico oggetto on scena: l’albero a cui è appeso il tamburo di saia. Lo spettatore è però ormai catturato in questo teatro i cui veri protagonisti sono il tempo e l’immaginazione. Ogni frase è un recitato-cantato la cui durata è spesso molto più lunga del tempo realmente necessario a pronunciarla, cui fanno eco e sostegno le note emesse dai musicisti e i rilanci del coro. Alcune frasi forse non sono state tradotte, ma altre catturano lo spettatore con lampi di senso e la loro grazia: “il tempo si dilegua come spuma di mare”. Il tempo dilatato del no ci invita a riflettere e ad aprirci, a espandere i nostri sensi nell’ascolto per cogliere ogni magnifica variazione. Il premio di questo lasciarsi attraversare è “vedere” realmente scomparire al di sotto della superficie appena increspata dello stagno lo spirito del giardiniere “Così dicendo sprofondò nell’abisso dell’amore “ con un gesto magnifico. I numerosi spettatori non sono stati delusi dalla performance che, come ben ha sottolineato nella emozionata introduzione la prof. Rossella Menegazzo, non è intrattenimento ma disciplina in cui si mostra da un lato l’ombra, dall’altro la luce. La disciplina in questo caso deve anche essere esercitata dallo spettatore, il quale è chiamato a un livello di attenzione spasmodico e a un esercizio di immaginazione per integrare quanto avviene in scena: quasi un esercizio di meditazione, come la lettura di un haiku. Se ne esce sicuramente provati, ma sereni, pacificati.
“Instabile è il destino, rapido scorre il tempo”
Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 5 febbraio 2024
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SPETTACOLO DI NŌ E KYŌGEN, KYOGEN Fukuno Kami / Il Dio della Fortuna NOGAKU Aya No Tzuzumi / Il tamburo di saia SCUOLA HŌSHŌ
5 febbraio 2024
Kazufusa Hosho Kennosuke Nomura Norihisa Hideshi Seki Naomi Kyōgen: Fuku-no Kami / Il Dio della Fortuna
Visitatore del tempio: Yūki KAWANO Visitatore del tempio: Kōta ISHII
Nō: Aya no Tsuzumi / Il tamburo di saia (70min)
Anziano e suo spirito: Kazufusa HŌSHŌ Consorte imperiale: Naomi SEKI Ufficiale imperiale: Hideshi NORIHISA Servo: Kennosuke NOMURA
Jiuta (coro): Takashi TAKEDA, Manjirō TATSUMI, Shinjirō OGURA,
Yoshimitsu KANAMORI, Hajime TAZAKI, Yoshihiro UENO
Musicisti Nōkan (flauto): Ryuichi ONODERA Kotsuzumi (piccolo tamburo a clessidra): Ikio SŌWA YASUFUKU Taiko (tamburo): Sōemon KONPARU Stage Manager: Kenichi Nomura - Production Manager: Akiko Sugiyama
con il sostengo di Tokyo Arts Council con il patrocinio del Consolato Generale del Giappone a MilanoIn collaborazione con Change Performing Arts
Organizzato dall'associazione Hōshōkai
TEATRO ELFO PUCCINI Corso Buenos Aires, 33 MILANO tel: 02 00660606
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