Dici “Gemonio”, e poi “un ragioniere”, e “un geometra”: a che pensi?
Dai, su: ancora con la storia del celodurismo, della canottiera come status symbol, del dio Po, del celtismo d’accatto, delle lauree albanesi, e tutto il resto di folklore locale? Beh no. Il ragioniere e il geometra di Gemonio raccontano una storia diversa. Proprio tutta diversa. Che sempre una storia cialtrona pare (e forse è), fatta di episodi che fan ridere, oh sì, ma sempre se ti fan ridere la fontana di Duchamp, la Passeggiata di Palazzeschi e il Cadeau di Man Ray; se hai il fegato di ridere della suprema vanità del tutto. E “io capisco essere avanti”, ma ascolti “Il bonzo” e ti rendi conto che c’è poco da ridere: il cinismo d’oggidì sbeffeggiato già mezzo secolo fa. Solo che oggi fa molto trendy esibirlo, e se provi a parlar di dadaismo, uno pensa che sia una nuova app per il gioco d’azzardo. Va beh: sono uno snob, e allora? Il dadaismo è una cosa seria. E se a spinger il geometra e il ragioniere a far gli artisti, a consigliarli, a ispirarli è Piero Manzoni, che esponeva il suo concettualismo in trattoria (e dove, se no?), mentre loro buffoneggiavano sullo stile tra i tavoli; se a promuoverli è Lucio Fontana, tra un taglio e l’altro delle sue tele, mentre loro applicavano lo spazialismo al senso del discorso; se a spingerli sul palcoscenico son Dino Buzzati e Marcello Marchesi, allora ragioniere e geometra non son due guitti. Non possono esserlo. Vai a studiare (di questo si tratta) i loro testi, e vedi applicata, puntualmente, la lezione di Ionesco, con i suoi dialoghi assurdi: decontestualizzazione, significanti privati di significato. Un gioco alto/basso, da poeta e contadino – come da oggetto; solo, orchestrato dal Duo di Piadena anziché da von Suppé. I risultati sono un frullato di Alfred Jarry e della sua patafisica (l’arte delle soluzioni immaginarie: e infatti realizzarono uno spettacolo televisivo con variazioni dei personaggi della saga di Papà Ubu), di calembours alla Marcello Marchesi, di satira sociale alla Flaiano (non a caso misero in scena una sua pièce al Festival dei Due Mondi), di surrealismo alla Magritte applicato alla parola, stralci di Palazzeschi (“Bilolù. Filolù.U”, che diventa “Libe-libe-libelai”; e il “Clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchete” della povera fontana malata, che diventa “Cif-ciaff, cif-ciaff fa il pennello, puli-puli-puli-pu fa il tacchino”, sull’allegra aria bandistica de “L’inquilino”. Onomatopee infantili, un gioco ripetuto praticamente in un brano su tre. E lasciate pure che si sbizzarriscano, anzi, è bene che non la finiscano, il divertimento costerà loro caro: daranno loro del somaro. Lasciateli divertire, già…). E ancora accostamenti casuali, incongrui (“tacchi, dadi e datteri”, e poi “il piantatore di pellame che era infelice perché lui non piantava il caffè perché cresceva da sé”: neanche Frank Zappa col suo coltivatore di filo interdentale raggiunse le loro vette), secondo la lezione dell’espressionismo astratto di Rauschenberg e del neo-dada di Jim Dine. Pigliando poi allegramente per il culo i sermoni di John Donne (“La solita predica”), o il superomismo dannunziano (“Il reduce”), appena se n’è data l’occasione. Poi, geometra e ragioniere avevano poi un nume tutelare, una guida spirituale di gran rispetto, a nome Enzo: di giorno, studente di medicina; di notte, uno che faceva l’asino con loro. Risultato: un morto di sonno perenne, ma tanto sveglio e lucido quant’altri mai. Un’altra bella storia da raccontare. Come questa di Gemonio. Di un ragioniere. Di un geometra. E di un morto di sonno. Uno. Due. Tre. Un due tre… “…Uan ciù tri, la Peppina la fa el coffì. Cènchius. On dos tres, la Peppina la fa l’espress. Mucio…”
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Aurelio Ponzoni (Cochi) Enzo Iannacci Renato Pozzetto
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