Già oggetto del libro "Princesa" (pubblicato nel 1994 e successivamente tradotto in portoghese, spagnolo, tedesco e greco), del brano musicale omonimo a firma di Fabrizio De André ed Ivano Fossati (presente nell'album "Anime salve" del 1996, pubblicato a nome del primo), del film-documentario "Le Strade di Princesa" di Stefano Consiglio (trasmesso da Rai Due e Telepiù un anno dopo), e del film "Princesa" datato 2001 (con Ingrid de Souza, Cesare Bocci, Lulu Pecorari, Mauro Pirovano e la produzione internazionale diretta da Henrique Goldman), la storia di Fernanda Farias de Albuquerque, transessuale brasiliana vissuta per molti anni in Italia, approda al teatro per mano di Fabrizio Coniglio (regista) e Vladimir Luxuria (interprete). L'opera presenta alcuni punti di debolezza (che si enunciano per primi al mero di scopo di lasciare i punti di forza in chiusura): il monologo è appassionante ma la sua durata è eccessivamente dilatata, specie considerando l'assenza di una pausa; la regia non convince totalmente, con ciò alludendo alla scelta di far interagire Fernanda con un personaggio, quello di Giovanni, che si presenta sul palco parlando, poi vi rimane repentinamente ammutolito, con la conseguenza di generare la surreale incongruenza di una figura presente ma che si vorrebbe assente; inoltre, il ritorno di Fernanda dalla madre, nella casa brasiliana, rimane visivamente ancorato alla compagine carceraria di Rebibbia, le cui fredde pareti della cella restano sul palco intoccate, addirittura perfettamente illuminate (in tal senso, la pausa potrebbe servire anche a modificare il palco, adattandolo al citato contesto domestico); permangono inoltre perplessità in ordine al conclusivo messaggio di speranza, sublimato dall'incontro con Giovanni, totalmente in antitesi con l'epilogo vissuto dal personaggio reale, purtroppo deceduto per mano propria, dopo un travaglio interiore lungo e tormentato. Eppure, l'opera regge grazie all'interpretazione di Vladimir Luxuria, appassionata, credibile, coinvolgente. L'attrice manifesta la piena capacità di percorrere con straordinaria efficacia un range interpretativo a vocazione drammatica piuttosto esteso, che va dall'incubo claustrofobico tipico della vita carceraria, ai ricordi ossessivi di un'adolescenza difficile e martoriata, passando per i demoni interiori vissuti da chi abusa di sostanze stupefacenti e per le ossessioni insolute generate dalla difficile condizione di malata di AIDS. Nel mezzo, la foggiana è capace di gestire abilmente graditissime incursioni umoristiche, pur estemporanee e contenute, che strappano risate e complicità da parte di un pubblico tenuto peraltro perfettamente in pugno anche grazie ad un uso interessante della quarta parete, bucata dapprima dolcemente, semplicemente scendendo dal palco per presentarsi per la prima volta negli amati abiti femminili, poi frantumata violentemente, simulando, in una maniera invasiva del tutto voluta, il ritorno alla droga e alla vita di strada (al riguardo, è stavolta premiante la scelta della regia di lasciare il palco alle spalle, in termini di risorsa oramai sfruttata, al quale, più correttamente, si preferiscono gli spazi antistanti e laterali al pubblico). Sullo sfondo, e da ultimo, preme segnalare l'ennesima abilità dell'attrice di catalizzare in toto gli astanti, mantenendo altissima la curva dell'attenzione, con una delle tecniche più difficili tra le innumerevoli che compongono la realtà attoriale, cioè il monologo, vera e unica prova che qualsiasi attore vorrebbe essere in grado di superare agevolmente. |
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