Eccoci al Parenti, sala A. La stanza di Renato Battiston, piena di libri e ricordi, sigla l'immarcescibile fede politica a cui il vetusto protagonista è fermamente votato con il ritratto di Antonio Gramsci che ci scruta severo. Gli arredi in stile Liberty sono dignitosi, come si confà ad una anziano borghese solitario, stride solo simpaticamente in primo piano la poltrona arancio ocra in vellutone a coste anni '80 come inconsapevole tocco di contaminazione radical- chic. Le luci sono calde e amplificano il movimento degli attori rispetto allo staticismo della mono-scenografia. Irrompe Manuel (Alberto Onofrietti), il camerata come lo appella Renato (Antonello Fassari), in pantaloni cargo verde militare attillatissimi, stivaletto anfibio nero ed un tatuaggio in carattere gotico con la scritta DUX a tutto braccio sinistro. L'accento e l'atteggiamento del giovane smarcatamente romanesco e tracontante lo fa apparire come un facinoroso borgataro romano; l'attitudine infatti è quella di un individuo abituato a poco riflettere ed istintivamente agire sugli unici binari percorribili: quelli del pregiudizio e della stereotipia. I due uomini, apparentemente diversi per età, formazione, convincimento sociale, in netta antitesi fra loro, sono indotti dalle accidentali circostanze ad una improvvisa e improbabile convivenza forzata, legati da un sottile ricatto che li annoderà in una trama introspettiva, valida a sciogliere tutto il loro mondo interiore, fatto di principi inconciliabili e una antinomia di capisaldi che si sgretoleranno dinnanzi al vissuto dell'antagonista attraverso uno scambio di feroci dialoghi e sagaci battute da commedia brillante e al contempo drammatica. Siamo in divenire, lo scorrere dei mesi suggella un legame fra i due che si raccontano l'un l'altro mostrandosi con le reciproche fragilità; persino il ritratto di Gramsci è stato sostituito con quello del vero leader massimo per Manuel, il Pupone, a testimonianza del fatto che, anche l'orgoglioso, irriducibile e colto tipografo partigiano, ha ceduto il passo ad una malleabilità che solo la tarda età poteva regalargli. Un telegramma raggiunge inaspettatamente Renato annunciando secco l'imminente arrivo, dal continente africano, di Aurora (Alvia Reale) la figlia medico ex brigatista che da trent'anni non vede il padre, e questo contrappesa gli equilibri. Tre modi di intendere la vita da ottiche totalmente diverse, tre generazioni, tre fedi politiche, tre sistemi di affrontare l'esistenza che si incontrano, deflagrano per poi decantare nel tempo. Grande prova attoriale per Alberto Onofrietti la cui formazione presso la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi e la ventennale esperienza lo rendono un caratterista credibile ed empatico; val la pena di ricordare che l'artista aveva già calcato le scene del Parenti con l'indimenticato Gianrico Tedeschi (Milano, 20 aprile 1920 – Pettenasco, 27 luglio 2020) nella stessa opera. Magistrale l'interpretazione di Antonello Fassari che vanta oltre al teatro, un vastissimo repertorio di cinema, televisione, prosa radiofonica e doppiaggio. Abile ad incastonarsi, guadagnando sul lungo raggio garbatamente un cospicuo spazio scenico dopo i primi fitti 50 minuti di pièce, Alvia Reale (Premio Eleonora Duse per la sua interpretazione in 'Quer pasticciaccio brutto de via Merulana'). 105 minuti di contrastanti emozioni, sorrisi e lacrime. Consigliatissimo. La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 6 maggio 2023 |
Farà giorno.
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