Lo spettacolo "Terapia d'urto" offre l'opportunità a Chiara Becchimanzi di rivedere il significato intrinseco del motto mazziano "Dio, Patria e Famiglia", poi adottato dal fascismo, oggi definitivamente ripreso dalla destra di Giorgia Meloni. L'analisi dei concetti sottesi alla citata espressione è qui ispirata ad una visione comico-dissacrante che, più che richiamare una ideologia collocata a sinistra, pare ancorarsi ad una compagine squisitamente anarchica che, a tratti, esprime anche una vocazione vagamente nichilista. Pessimo l'inizio, non tanto per l'approccio al limite del blasfemo che ha tipizzato la trattazione del primo dei tre topic affrontati (al riguardo, l'attrice si è presentata in abiti papali quale rappresentante di una chiesa personalizzata che aborra l'identità di genere, quindi con largo uso di schwa, cosìcchè, ad esempio, Dio è diventato Diə), quanto per la povertà di battute che ha connotato il monologo. Tralasciando considerazioni sul fatto che è pieno il mondo di comici pronti a fare ironia su un Dio che predica il perdono, l'amore e la tolleranza (mentre è ancora assente la figura dell'impavido artista che prende per i fondelli qualche Dio cattivo e vendicativo i cui seguaci sono pronti a mozzare le teste di chi dovesse azzardarsi soltanto a nominarlo), fare ironia su temi religiosi è un'arte piuttosto difficile e pochi vi riescono o vi sono riusciti con successo: così, su due piedi, vengono in mente personaggi come Giorgio Gaber o Woody Allen che, nelle loro battute, esprimono certamente ingegno e arguzia (ad esempio "Io, se fossi Dio, non avrei fatto gli errori di mio figlio, e sull’amore e sulla carità mi sarei spiegato un po’ meglio", del primo, "Grazie a Dio, sono ateo", del secondo). Nel caso in trattazione, purtroppo, tutto ciò è parso assente, con l'aggravante di una gestione del pubblico e dei tempi comici piuttosto maldestra. A testimoniarlo, una certa freddezza della platea, smorzata soltanto da qualche tiepido sorriso e, quantomeno per chi scrive, grande desiderio di fuggire altrove. Ed invece, svestiti gli improbabili panni clericali e avviato lo show nei termini pubblicizzati sulla locandina, cioè entrando nel vivo della stand up comedy (con la sublimazione aggiuntiva di innegabili doti improvvisative, impreziosite dalla capacità di bucare adeguatamente la quarta parete), Chiara Becchimanzi, è il caso di dirlo, è letteralmente "risorta". Da quel momento in poi, tutto ha preso un'altra direzione: rispettati di colpo i tempi comici e massimo è stato l'ascendente esercitato sul pubblico. Si, certo, al ben poco divertente tema dell'aborto, affrontato con cattivo gusto, avremmo preferito l'esegesi dell'orgasmo (purtroppo appena accennata, poi abbandonata), ed è stato anche troppo ricorrente l'argomento del patriarcato (è palese che l'artista abbia un problema con questa specifica materia: vale la pena ricordare che la battuta è efficace quando non ripetuta), ma nel prosieguo, lo spettacolo si è sviluppato con sagaci ed intelligenti commenti e aneddoti, ben contestualizzate citazioni di personaggi della politica (Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Gianni Alemanno, Vladimir Putin), una puntuale disamina della situazione afferente ai contratti di lavoro (che, come tristemente noto, in ordine al trattamento economico, tendono a favorire il sesso maschile), riuscitissimi sunti tematici dedicati all'arte (non più lunghi di 20 secondi), ed un condivisibile commento critico su libro e film "Lolita" che, da solo, vale l'intero prezzo del biglietto. Questa recensione si riferisca alla rappresentazione del 17 marzo 2023. |
Chiara Becchimanzi
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