Stasera in scena il teatro che vuole usare l’invenzione e la finzione, amalgamate con un pizzico di realtà, per analizzare, interrogare e ricostruire la storia. E così incarna i fatti del passato, fino a renderli quasi tangibili attraverso la capacità di evocare spazi, gesti e parole. Proprio questo sembra il fine dell’ultima opera di Davide Carnevali, Ritratto dell’artista da morto (Germania ’41 - Argentina ’78), interpretata da un affabulante e intenso Michele Riondino a cui è dato l’incarico di raccontare al pubblico gli accadimenti, aiutato da pochi e sapienti oggetti di scena: una lavagna su cui scrivere e scandire le cose rilevanti, una chitarra ed un pianoforte, un bossolo, un’automobilina rossa, una ricostruzione in scala della stanza che è anche parte della scenografia e poco altro. La narrazione mescola vita vissuta e fantasia per raccontare uno spaccato del Secolo spezzato e delle sue aberrazioni totalitariste basandosi su un testo adattativo, che viene riscritto ogni volta in base del luogo dove viene rappresentato, della sua lingua, della sua storia e dei diversi attori che lo interpretano. Veniamo ai fatti. Lo spunto di partenza è un caso giudiziario che investe Riondino – attore e protagonista della vicenda – attraverso una raccomandata dall’Argentina. Viene chiamato in causa per una ignota vicenda di eredità che lo porta, assieme all’amico regista del Piccolo Teatro di Milano, a Buenos Aires per cercare di chiarire la faccenda ed allo stesso tempo per cercare di ricavarne una rappresentazione documentaristica teatrale, quella che appunto sta andando in scena. Tutti ruota attorno ad un appartamento che un lontano e sconosciuto parente lascia in eredità all’attore italiano. Le ricerche – o per meglio dire indagini – che passo-passo Riondino fa, ricostruiscono la storia di questo appartamento. Si scopre che in passato era stato posseduto ed abitato da un compositore di origine italiana scomparso nel nulla durante il regime dittatoriale argentino. Si scopre inoltre che prima di sparire il compositore stava lavorando su delle partiture di un altro compositore, sempre italiano ed ebreo, a sua volta scomparso molti anni prima durante la Seconda guerra mondiale. Due compositori, due sparizioni, due biografie simili … due eventi che legano tra loro il regime dittatoriale argentino e quello fascista con le loro analogie e tangenze che sono quelle di tutte le dittature: occultamento delle informazioni, propaganda, omertà, violenza psicologica e fisica, delazione, dissimulazione … Allo stesso tempo, tra ricerca storica e investigazione poliziesca, l’amico regista che lo ha accompagnato architetta il suo modo di sentire la storia e di come metterla a disposizione di tutti. E lo fa ponendosi – e ponendo – una serie di domande: come può un attore vivere uno spazio-tempo, una storia che si ripete senza mai accadere, chi sono i personaggi e chi è reale e chi invece inventato, come può un interprete riflettere le reali intenzioni di un autore, come si può raggiungere l’obiettività e non influenzare lo spettatore… Una vera e propria poetica “applicata” del teatro. La rappresentazione diventa sintesi di linguaggio, di movimenti, di oggetti di scena, di coinvolgimento del pubblico (che viene chiamato in causa per ‘toccare con mano’ e verificare con la propria sensibilità gli indizi direttamente all’interno dello spazio scenico). Ricordi e fantasia, cultura e cronaca, finzione e realtà formano l’humus da cui il teatro attinge per diventare consapevolezza e compartecipazione di tutti. Convincente Michele Riondino ed essenziali le scene e i costumi di Charlotte Pistorius. Intrigante anche la scelta di usare la musica (suonata dal vivo) di Gianluca Misiti per raccontare le scene con maggior coinvolgimento emotivo. Ritratto dell’artista da morto è un ritorno all’essenza del teatro, non più costruzione estetico-morale ma luogo di culto dove rappresentare le cerimonie della vita reale.
La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 16 marzo 2023. |
RITRATTO DELL'ARTISTA DA MORTO scritto e diretto da Davide Carnevali
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