Lunetta Savino interpreta magistralmente la difficile condizione di una madre che si capacita di perdere l'amato figlio, in procinto di iniziare una nuova vita con la sua compagna.
Nel momento dell'abbandono, questa madre si ritrova catapultata in una dimensione in bilico tra fantasia e realtà, nient'altro che una fuga dalla sua condizione, aggravata anche dalla presenza/assenza di un marito che, da tempo, vive una vita del tutto parallela. Questa multi-realtà è ben rappresentata attraverso stacchi narrativi realizzati previo l'inserimento di immagini, suoni, luci e musiche, un modus operandi che di fatto esprime un meta-racconto nel racconto. Preme peraltro sottolineare la scelta intelligente di limitare nel numero gli elementi di scena, il cui contenimento, peraltro, permette di organizzare il palco in maniera del tutto funzionale alla fisicità degli attori, al loro movimento, diretto in modo preciso e verosimile. Nell'ultima parte della rappresentazione, il gioco tra le realtà - o meglio, tra i diversi piani della realtà - tende a perdere inevitabilmente un po' di chiarezza ma ciò serve a sottolineare una distopia all'interno della quale la madre riesce a non perdere il figlio. La Savino si cala nel personaggio in modo così naturale, che talvolta si fa fatica a considerarla attrice, quasi esprimesse un suo stato emotivo realmente vissuto. Il ritmo registico è serrato, brillante, talvolta addirittura vicino al teatro di Molière, peraltro arricchito da una sottile ironia che persiste costante, in molte scene, sino addirittura all'epilogo. Ma c'è anche un senso di latente malinconia, nella narrazione, che apre squarci riflessivi sui temi delicatissimi legati alla gestione dei rapporti interpersonali, segnatamente quelli di natura familiare. Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 14 marzo 2023 |
Compagnia Moliere
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