Scritto da Mariarosa Gallo Mercoledì 28 Febbraio 2024 11:34 Letto : 1018 volte
L'assonanza del titolo dell'opera con il celeberrimo brano "Born in the U.S.A." che Bruce Springsteen scrisse nel 1984 è già certezza di forma che restituisce significato ai contenuti e, ad una più attenta analisi, ne rifrange ugualmente un aspetto di irridente denuncia. La parabola narrativa parte proprio da lì, Rosignano Solvay, laboriosa frazione livornese in cui tutto è efficiente, nella quale il pregevole attore consumò, in seno ad una famiglia operaia, i primi passi di fanciullo e ragazzo capace di scandagliare le personalità umane al punto da trarre e sedimentare spunti imitativi unici, mai stereotipati, che lo porteranno a consolidare le doti artistiche che da un ventennio possiamo ammirare in esilaranti camei televisivi, oltre che in teatro anche attraverso questa pièce. Scenografia scarna, fatta d'una simbolica cornice senza quadro, una sedia ed una piccola scrivania utili a far diventar l'imitatore quel "qualcun altro" capace di catturare le risate degli astanti. Mai trincerato dietro ai numerosi personaggi callidamente imitati (Lapo Elkan, Massimo Giletti, Matteo Renzi, Massimiliano Allegri, Luciano Spalletti, Mario Giordano, Bruno Barbieri, Roberto D'Agostino), reputati forse buoni compagni di viaggio per certi versi, citati insieme alle sue origini, alla formazione scolastica zeppa di gags esilaranti, alla scelta universitaria, ai primi approcci in Rai, agli amori e ai suoi due figli. Un modo di stare sul palcoscenico mai banale, sornione e sarcastico al contempo, degno del rango di ottimo attore comico, perché "far ridere è una cosa seria" Cit. Farnè M. La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 27 febbraio 2024 |
Born in the Solvay
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