Pamali Festival, un reportage

Pamali Festival 2024 - RadioBoscoIl nome, prima di tutto

Nel 2019, sarà stato l’inizio dell’estate, un’amica mi fa: “Senti, ad agosto perché non venite qualche giorno con noi su dalle parti del Passo San Boldo… c’è questo festival musicale – si chiama ‘Pamali’ – una cosa un po’ fricchettona, un po’ particolare, ti piacerà, e poi ci sono un sacco di attività per i bambini: le mie figlie lo adorano, vedrai che anche Lucrezia si divertirà. Noi saliamo in camper, voi potreste appoggiarvi a noi se venite su in tenda”.

“Pamali? Mai sentito.”

“Pamali sì… dev’essere una parola dei nativi d’America, sai: ci sono i tepee e tutte quelle cose là degli sciamani, è già qualche annetto che lo fanno.”

“E che ti devo dire? E andiamo a vedere ’sto Pamali.”

“Pamali”, almeno a quanto sono riuscito a verificare in seguito, non è in realtà una parola attestata tra i popoli nativi d’America. Però è il nome di un piccolo villaggio indiano (1.758 abitanti all’ultimo censimento) dello Stato del Punjab, distretto del Ludhiana, mentre in Urdu, la lingua parlata da oltre 200 milioni di persone tra Pakistan e paesi confinanti (nonché la lingua in cui canta la jazzista neo-sufi Arooj Aftab – per inciso: uno dei migliori dischi del 2024 è suo), ha un significato cruento, che si può tradurre con “devastare, calpestare, distruggere”… mhm… difficile che quelli del festival si siano ispirati a questo terribile concetto. Se però ci spostiamo in Indonesia, nella parte occidentale dell’isola di Giava, dove si parla il Sundanese, “Pamali” significa “tabù ancestrale”, già qualcosa di decisamente più suggestivo, certo… ma forse, chissà, più adatto a una rievocazione etnica.

E quindi no, in definitiva non ci siamo ancora. Facciamo così: la cosa migliore è farsi spiegare tutto dall’ideatore stesso del Pamali, “Caio” Claudio d’Altoè, con cui riesco per la prima volta a parlare a poche ore dalla chiusura dell’edizione 2023 del Festival.

“Era il 2010, facevo il muratore giù a Tarzo con mio padre, ascoltavo un sacco di musica e pensavo che ci fosse bisogno di spazi, di occasioni comuni per ascoltarla assieme e suonarla dal vivo anche lì da noi. Avevo in mente un piccolo festival che avesse come tema questi tre concetti: ‘state in pace, amatevi, e siate liberi’. E insomma, c’era già tutto lì: PAce-aMAre-LIbertà… PA-MA-LI, o, se vuoi, anche la Pace che AMA la Libertà (e viceversa). Ecco come è nato il nome: sei sole lettere che racchiudono tre concetti così importanti… All’inizio abbiamo fatto tutto giù, a Tarzo, poi, dal 2015, siamo saliti quassù, al Passo San Boldo, grazie all’ospitalità di Gianni B., lo sciamano della valle.”

Ora che sappiamo qualcosa di più sul nome, possiamo sospendere il racconto di Caio, per dedicarci alla geografia del luogo.

 

Dopo il nome, la geografia: stravedamenti, cieli stellati, il basso e l’alto

Tra il “quassù” del Passo San Boldo e il “laggiù a Tarzo” di cui parlava Caio – un’area collinare il cui fondovalle è occupato da due laghi le cui sponde furono abitate fino almeno dal Neolitico, e che oggi, curiosamente ma significativamente, ospitano un altro importante festival underground, il Lago Film Fest dedicato a cortometraggi e documentaristica – ci sono neanche cinquecento metri di dislivello. Ma la conformazione del valico – un vero e proprio strapiombo nel versante sud – conferisce al passo un aspetto imponente. Ne sanno qualcosa i ciclisti, e non è raro infatti che il Giro d’Italia passi di qui, mettendoli alla prova con un Gran Premio della Montagna il cui senso sta tutto negli ultimi ripidi cinque tornanti in galleria. Una volta su, giunti all’antica Muda (il posto daziario dove nel Medioevo le merci facevano dogana), la sorpresa: una ampia vallata pianeggiante si distende verso nord; percorrendola, in neanche dieci chilometri si giunge alla Val Belluna, e al fiume Piave.

In questa piccola valle spopolata, negletta ai traffici turistici e alle tecnologie, la quasi completa mancanza di connessione mobile consente, in occasioni quasi miracolose, altri tipi di connessione: qui, durante un Pamali, la notte dopo San Lorenzo arrampicandomi su una collinetta ho rivisto la Via Lattea con una nitidezza e intensità della luce stellare come non mi capitava da almeno vent’anni (l’ultima volta che avevo avuto un’esperienza simile mi trovavo a Montona, grosso modo al centro dell’Istria). Allungando la mano verso il cielo come a voler toccare le stelle non ho potuto fare a meno di pensare al fatto che noi terrestri siamo tutti abitanti di periferia: su scala astronomica, il pianeta Terra è uno dei tanti Passi San Boldo della nostra galassia, soltanto un po’ più grande. Questo fatto di essere – orgogliosamente – ai margini, mi fa anche pensare a quello che, con una certa malinconica consapevolezza, mi ha detto il leader dei Cacao Mental, il colombiano Kit David Ramos Cespedes, quando nel 2023 gli ho chiesto di dare una definizione del suo gruppo: dopo aver parlato del suo passato come suonatore di musica mariachi in Centro e Sud America e della faticosa strada che ha portato i Cacao Mental ad avere una certa notorietà e un buon successo qui in Europa nel genere cumbia, mi fa “sai, in definitiva questo siamo, degli umani adattabili”. “Adattabili a cosa, David?”. “Adattabili alla vita.” Pace.

Ci sarebbero ancora altri suggestivi elementi per completare l’elegia di questo luogo: la sua vicinanza geografica alle terre dei cimbri, che sopravvivono in comunità sparse a pochi chilometri da qui; il fatto che il passo come lo conosciamo oggi sia stato ultimato durante la prima guerra mondiale anche grazie al lavoro forzato dei prigionieri russi al seguito dell’esercito imperiale degli Asburgo, e a quello quasi forzato di donne e ragazzi della zona (dopo la rotta di Caporetto il valico era diventato strategico in preparazione della Battaglia del Solstizio); il mesto spopolamento di questo luogo, tanto che cento anni dopo la guerra che ha definito l’identità collettiva contemporanea di gran parte del Veneto, qui resistono ancora solo una ventina di abitanti, per la precisione 22 secondo il proprietario di una trattoria dove si mangiano le favolose crespelle al peruch, lo spinacio selvatico di montagna che altrove chiamano Buon Enrico, e che solo le economie povere si ostinano ancora oggi a raccogliere e cuocere; o infine la  vicenda del già citato Gianni, un montanaro spesso in rotta di collisione con le autorità e insofferente ad esse (come d’altronde è tipico di tutti i montanari che si rispettino), che a un certo punto della sua vita ha iniziato a vivere come un nativo d’America – tutto l’anno però, non solo quando il tempo è mite e potrebbe anche venir comodo – costruendo col tempo i tepee e le strutture in legno sul suo terreno (il terreno che, come dicevamo sopra, ospita in agosto il nostro festival).

Però prima di passare alla storia del Festival raccontata da chi il festival lo fa, voglio soffermarmi su un ulteriore elemento di connessione del Passo San Boldo: quello con la laguna di Venezia, laggiù in fondo (molto più in fondo di Tarzo). Se infatti Caio guardando verso nord intravedeva la sella del Passo San Boldo e immaginava che un giorno ci avrebbe portato lassù il Pamali, chi abita a Venezia (meglio ancora: al Lido), in certi giorni di bel tempo benedetti da un vento vivace che spazza via le nubi (idealmente, mi dicono, la “Bora Chiara”), guardando verso nord potrà assistere allo spettacolo maestoso dello “stravedamento” – un particolare effetto ottico, oggi amplificato grazie all’uso di potenti teleobiettivi, che già a occhio nudo trasforma l’arco alpino in una corona che cinge la città. Se però vieni dalla periferia, sia essa Marghera o Favaro o Campalto, nei giorni di stravedamento la città si troverà alle tue spalle, ma le montagne saranno tutte lì, davanti ai tuoi occhi, a richiamarti. E, nel caso del Festival Pamali, a richiamarti per davvero, come vedremo tra poco. E storia sia.

 

E quindi la storia: connessione, riconnessione e morte

Prima, quando ci chiedevamo quale fosse l’origine del nome “Pamali”, probabilmente ho sbagliato a liquidare come non rilevante la pista sundanese-giavanese (avevamo visto che da quelle parti “Pamali” vuol dire “tabù”): il tabù infatti riguarda ciò di cui noi non possiamo parlare, qualcosa che, oscuramente, spesso continua ad esercitare un’influenza potente sulle nostre esistenze, individuali e collettive. Accade però a volte che anche i grandi tabù ancestrali vengano affrontati dagli uomini, e allora le nostre parole riescono, se non ad incanalare, almeno a comprendere il senso di quella potente influenza. Il tabù che più di ogni altro ci accompagna dall’infinito passato è, per tutti noi, ovviamente, quello della nostra impermanenza. La morte, sì: e non l’Essere per la Morte che illudeva i filosofi esistenzialisti di aver carpito un aspetto autentico della nostra Caduta nel Mondo, ma la morte concreta, la morte vicina, quella delle persone che abbiamo amato e da cui ora ci troviamo irrimediabilmente separati.

Quando le circostanze ci consentono di sfidare il tabù, la morte di chi abbiamo amato diventa un forte fattore di riconnessione tra i vivi: in alcuni casi si organizzeranno concerti di commemorazione, ci saranno gruppi che suonano, magari degli artisti di teatro-danza che ci emozionano con un’allegoria dell’impermanenza e della rinascita, ci sarà forse un banchetto per raccogliere fondi a sostegno delle iniziative che stavano a cuore del defunto, e ancora ospiti speciali che, impugnato il microfono, come antichi sciamani riappacificheranno attraverso le loro parole i vivi con i morti. Il più delle volte, però, circoscriveremo questi episodi confinandoli nel novero delle eccezioni che non devono ripetersi, vuoi perché sentiamo la pressione del ritorno alla normalità, vuoi perché in fin dei conti abbiamo tutti bisogno di guardare avanti, e basta. Un po’ per volta smetteremo di sentirci con gli altri sopravvissuti; alcuni di noi preferiranno non parlarne più; qualcuno, isolato, ricorderà ancora.

C’è però un’altra possibilità ancora, e cioè che la morte come fattore di riconnessione non si esaurisca ad un potente ma limitato evento unico né si fossilizzi nelle forme obbligate delle commemorazioni ufficiali. Quello che è avvenuto al Pamali rappresenta precisamente la concretizzazione di questa possibilità, e forse questo è uno dei veri motivi per cui quello che tutto sommato resta un festival “piccolo”, una storia minore, merita la cura che riserviamo alle cose davvero importanti.

Torniamo da Caio: “E quindi le prime edizioni, dal 2010, le abbiamo fatte giù a Tarzo. C’era molto reggae, forse più di adesso, anzi, sicuramente di più. Col tempo siamo riusciti a portare anche nomi piuttosto grossi, come Alpha Blondy. Poi nel 2015 siamo finalmente saliti qui, grazie all’ospitalità di Gianni. Il festival ha cominciato a decollare, con tutte le difficoltà che questo comporta, visto che a livello organizzativo continuavamo a fare tutto in pochissime persone. Sia come sia, siamo riusciti a portare gruppi come gli Asian Dub Foundation e gli Africa Unite”.

“Qui al Passo San Boldo?”

“Sì, proprio qui! E grazie a collaborazioni speciali, come quella che dura tuttora con “Mutonia – Mutoid Waste Company” di Sant’Arcangelo di Romagna, è cresciuta sempre di più anche la parte extra concerti: voglio dire gli spettacoli del fuoco, le performance artistiche, le installazioni, la danza contemporanea.”

“Gli spettacoli del fuoco sono stati la cosa più emozionante del mio primo Pamali. Anche perché, ehm, l’ultima notte il vento tutto d’un tratto ha preso a soffiare davvero forte e per poco non ci siamo trovati le faville addosso… Lucrezia ha preso un bello spavento.”

“Quello era il 2019, no? Adesso come hai visto un inconveniente così non potrebbe più accadere e siamo a prova anche di raffiche di vento improvvise. Però rimaniamo a quel Pamali: a guardare le cose da fuori avresti detto che tutto stava andando alla grande… la realtà era che invece, dopo quell’edizione, che era la decima, eravamo stanchi. Forse la spinta si era esaurita, ed eravamo davvero in troppo pochi a seguire troppe cose. Oh: d’altro canto tutti avevamo il nostro lavoro – fuori di qui noi siamo muratori, osti, elettricisti – magari avevamo messo su famiglia, e sicuramente non avevamo più vent’anni. E poi è arrivato il COVID. Insomma: tutto ci diceva che era ora di consegnare il Pamali ai ricordi. Ma poi.”

“Ma poi?”

“Ma poi è morto Mauro.”

 

Mirta Baratto è la responsabile dei social media, ufficio stampa, comunicazione del Festival. È anche il membro dell’associazione che ha preso le redini del “Nuovo” Pamali post-pandemico con cui ho parlato più volte negli ultimi dodici mesi: è insomma quella che si è dovuta sorbire le mie richieste di chiarimento più pedanti, e talvolta pure ardue da decodificare, e tra l’altro in cambio di niente, a ben vedere, quando tutti sappiamo che da che mondo è mondo una e una sola domanda assilla gli Uffici Stampa, e cioè: “Ma insomma quand’è che pubblicate?”. Mirta Baratto ha anche una sorella di nome Marzia, volontaria pure lei al Pamali, e una di nome Monica: quest'ultima, quando non è in servizio ai punti ristoro, si aggira per il Festival a fotografare artisti, spettatori, volontari, campeggiatori, baristi. Tutte e tre fanno parte del nutrito gruppo di Venezia-Mestre-Treviso e zone limitrofe che negli ultimi anni ha unito le proprie forze a quelle dei “montanari” per far rinascere il Pamali. Mirta, infine, aveva anche un altro fratello, di nome Mauro.

“Probabilmente Mauro e Caio si sono conosciuti a qualche festa, e a un certo punto il nostro fratello, non saprei dirti precisamente in che anno, è diventato un partecipante attivo del Pamali. D’altro canto nella vita Mauro era impegnato su più fronti: si occupava di musica, fotografia, ambiente, di festival certo, del grow shop, e  poi c’era l’interesse per lo sviluppo dei paesi africani – un impegno che portiamo avanti ancora adesso. Con il suo passaggio c’è stata un’onda di emozione, di celebrazioni, giù a Marghera al Parco Catene i suoi amici gli hanno dedicato un murales e organizzato un festival – il Respira Day, un evento di una giornata che si tiene a inizio giugno. E poi, del tutto spontaneamente, è nata una raccolta fondi che è servita a finanziare “I libri di Mauro”, un’iniziativa volta a donare libri alle scuole e ai bambini che ne hanno bisogno. Inoltre abbiamo anche potuto finanziare progetti di scolarizzazione in Kenya grazie ai calendari realizzati con le foto scattate da Mauro.”

“E poi, cosa succede nel 2022?”

“Nel 2022, del tutto inaspettatamente, ricevo la telefonata di Valerio da Ros, uno degli storici animatori del “Vecchio” Pamali assieme a Caio, e oggigiorno il presidente dell’Associazione che organizza quello “nuovo”. Valerio mi chiamava per dirmi che avevano pensato di far rivivere il festival – per quanto in un formato ridotto – e ci chiedeva il permesso di poterlo dedicare a Mauro. Da lì si sono messe in moto un sacco di cose: gli amici “lagunari” di Mauro si sono uniti ai “montanari” per creare questa grande festa di beneficenza in nome suo: il Pamauro, con lo slogan “è tempo di rinascita, è tempo di unire le energie in nuove avventure”. Il Pamauro è stato un grande successo, e l’evoluzione naturale a quel punto è stata la decisione di non disperdere quelle energie e anzi di rilanciare: abbiamo creato l’associazione “ODV Pamauro” e siamo tornati a organizzare il Pamali Festival.”

“Per te cosa significa essere entrata nel ‘Mondo Pamali’?”

“Devo dire che tutto è stato molto naturale…mi occupo dei social e dei comunicati stampa, e contribuisco all’organizzazione generale, lavorando in un gruppo molto variegato ma davvero unito, dove ognuno porta il suo contributo. Siamo persone felici. Il Festival del 2023 è stato un momento magico di unione delle nostre energie, e dell’energia di Mauro, e il successo di quella edizione ci ha dato ancora nuova carica. Trovo incredibile quanto lavoro facciano tutte queste persone, solo per passione e senza ricevere niente in cambio. Sai: io queste persone le chiamo la mia eredità, l’eredità che ho ricevuto da Mauro”.

 

Possano i giorni avere uno scopo. Le stagioni scorrano. Si prosegua l’azione secondo un piano.

 

“Senti Mirta, ancora un paio di domande. Prima  di tutto: abbiamo i dati sugli accessi singoli, la provenienza geografica dei partecipanti, le fasce di età, i canali attraverso cui vengono a conoscenza del Pamali?”

“Considera che più o meno siamo passati dai 3500 accessi singoli del 2019 ai 4000 del 2023. Il popolo del Pamali proviene principalmente dal nord Italia, sto però riscontrando sempre più presenze da tutta Italia. Anche la distribuzione per fasce di età è molto equilibrata, insomma, abbiamo Pamalisti di ogni età. Per quel che riguarda i canali, li usiamo tutti: io mi occupo in particolare dei social, ma poi, oltre al solito passaparola, ci sono le sinergie con altri festival, le presentazioni ad altri eventi, la stampa locale, e i volantini, ovviamente. Ma no, non abbiamo ancora mai fatto un serio approfondimento statistico né una ricerca etnografica.”

(Mhm, un pensiero per domani.)

“E infine, del programma di quest’anno cosa mi dici?”

“L’edizione del 2024 si intitola ‘Radiobosco’. Ci siamo ispirati alla poesia ‘La radiolina nel bosco’ di Gianni Rodari, in particolare ai versi: ‘Ascolta radiobosco / che trasmette di ramo in ramo / la musica della vita / il suo eterno richiamo’. Il programma è fittissimo, finiremo come sempre a tarda notte, diciamo pure all’alba, per ricominciare con la nuova alba: il ‘Radiobosco’ sarà fatto di natura e musica, installazioni e opere d’arte, incontri, laboratori e spettacoli, giochi, attività coinvolgenti e riti. Sarebbe impossibile riassumere tutto il programma di eventi, concerti e installazioni, però qualcosa lo voglio dire: all’entrata del festival gli ospiti saranno accolti da un’installazione Land Art fatta con materiali di recupero, progettata e realizzata da Francesco Franz Avancini, Michela Molinari e Nikki Rifiutile. Si esiberà il Blink Circus, che porterà direttamente dal Giffoni Festival al Pamali il Teatro Fotografico, un’installazione d’arte/teatro viaggiante unica al mondo, e lo spettacolo ‘Imaginarium’, e poi il gruppo di artisti No.mad.e Theatre, e poi ancora ci saranno le parate della Murga. Quanto alla selezione musicale per la serata d’apertura abbiamo fortemente voluto due band femminili: le Uttern con il loro concerto-rito sciamanico e le Fucksia con la loro carica adrenalinica e rivoluzionaria. Sabato sera non perderti i Mahout, li avevamo puntati da un po' di tempo [confermo la raccomandazione di Mirta e rilancio: con il loro album My Heart is a stoner, uscito sul finire del 2023, e con i loro live potenti, i Mahout sono oggi forse il meglio che si possa trovare in Italia alla confluenza tra punk, rock e reggae]. Mentre per quella conclusiva avremo il gruppo ska-punk salentino Après La Classe, che ha collaborato anche con Caparezza e Manu Chao».

Pamali 2023 - Prima della danza del fuoco

Marghera Gods (dietro le quinte del festival)

“Il Pamali visibile dura tre giorni, quello nelle nostre menti dura invece 365 giorni l’anno” (Federico Furlan, aka DJ Friday).

“American Gods” è tra i romanzi più riusciti di Neil Gaiman. È la storia delle antiche divinità arrivate in America da tutto il mondo assieme ai coloni, agli schiavi, ai migranti. Col passare dei secoli alcuni di questi dèi hanno continuato a prosperare, altri, invece, sono finiti in miseria, pressoché dimenticati, mentre diventavano sempre più potenti le nuove divinità (La Tecnologia, I Media, La Globalizzazione etc.). Il romanzo racconta del conflitto inevitabile tra Vecchio e Nuovo e degli inganni che si celano dietro la guerra. C’è però una cosa che più di tutte mi ha sempre affascinato degli dèi rappresentati da Gaiman: il fatto che nella “vita di ogni giorno” se la cavino con lavori normalissimi (oddio, magari normalissimi proprio no), e spesso umili. Ci sono tassisti, becchini, imbalsamatori, piccoli truffatori, donne equivoche e pure gatte domestiche che fanno le fusa. Quando però verrà il momento, ogni divinità sfolgorerà nel suo massimo splendore, rivelando la propria vera entità. Ascoltando in questi anni i racconti di organizzatrici e organizzatori del Pamali ormai non posso più fare a meno di pensare a loro come ai “Marghera Gods” che, dietro le quinte, mentre attendono ai propri lavori, dall’autunno ai primi giorni di agosto si occupano di ideare e realizzare il Festival. E poi, in tre giorni, tutti quegli sforzi hanno la loro celebrazione e consunzione, spesso sfolgorante.

Ne ho parlato a lungo con Federico “Friday” Furlan, che nell’organizzazione è quello che si occupa di selezionare e seguire le band e i DJ set. Federico nella vita di ogni giorno fa il giardiniere nella zona di Treviso, ma da sempre suona  come DJ, e negli anni ha sviluppato una buona rete di contatti con etichette discografiche e agenzie di booking. Il suo racconto è un fiume in piena, ricco di dettagli e precisazioni, a testimonianza della passione che lo anima.

“Anche io faccio parte di quelli che sono entrati nel ‘Mondo Pamali’ grazie al Pamauro. Visto che mi chiedi della selezione e del coordinamento dei gruppi musicali, ti voglio dire prima di tutto che questo non è un festival reggae: anche se l’atmosfera può richiamare quella tipologia di festival, in realtà di reggae oggi ce n’è tutto sommato poco. Cerchiamo di proporre un panorama musicale abbastanza vario, mantenendo sempre riconoscibili la nostra impronta e il nostro stile. Ecco, magari sarà difficile che ci trovi il gruppo metal, anche se non ti nascondo che abbiamo preso in considerazione anche gruppi che si avvicinavano a quello stile. In definitiva non abbiamo preclusioni verso questo o quel genere, ciò che conta è che i gruppi che prendiamo in considerazione possano poi davvero essere ben inseriti nel ‘contesto Pamali’. Tendenzialmente ci troverai quindi tanta roba con contaminazioni black, sicuramente un po’ di reggae, la afro, il funk e simili. Al Pamali trovi spesso band ancora poco conosciute ma che stanno emergendo, anche se, come ti hanno già spiegato, negli anni ci sono stati anche nomi grossi. Pensa ad esempio a quando è arrivato Alpha Blondy, uno dei giganti del reggae ivoriano. Non so, immaginati la scena: Alpha Blondy al campo sportivo di Corbanese, comune di Tarzo. Ciò detto, e al netto di qualche nome più noto, al Pamali hai la possibilità di scoprire tantissimi gruppi emergenti, un po’ underground, meno conosciuti, e non è raro che dopo qualche anno la loro popolarità sia cresciuta moltissimo.”

“E a quel punto  li richiamate?”

“A quel punto il loro cachet è triplicato e non ce li possiamo più permettere… Ok, a parte gli scherzi, come mi ricordava recentemente il manager della Maninalto! (l’etichetta discografica che fa il booking, tra gli altri, di Almamegretta, Tonino Carotone, Piotta, ma anche dei Babbutzi Orkestar che hai intervistato  qui da noi nel 2023),  la vera bravura di chi seleziona i gruppi per un festival  è proprio fare scouting e trovare quelle band particolari che magari, di nome, in questo momento non ti dicono ancora niente.”

“Senti, visto che accennavi ai cachet, ma alla fine un festival delle vostre dimensioni riesce ad andare in pari?”

“Beh, diciamo che ogni anno lo scopriamo solo l’ultimo giorno… però forse i veri rischi li corrono i festival che hanno già fatto il salto dimensionale, passando da ‘piccoli’ a ‘medi’.”

“Tipo?”

“Tipo l’OverJam Festival sloveno. Undici edizioni, bellissimo festival, grandi nomi, ma con il salto dimensionale e il passaggio alla gestione di tipo aziendale sono andati in buca. Debiti, incassi insufficienti nonostante il successo di pubblico, tutte quelle cose lì insomma. E quest’anno hanno dovuto annunciare l’annullamento del festival. Noi invece abbiamo un budget abbastanza limitato, di cui siamo consapevoli, e collaboriamo con etichette e agenzie di booking magari non grandissime ma solide, e, come dicevo prima, coerenti con il ‘contesto Pamali’: Maninalto!, Django Music, Tempesta. E poi andiamo a cercare anche gruppi che non sono ancora appoggiati a nessun management. E così si arriva a gennaio e abbiamo la nostra pre-selezione completata. A quel punto facciamo un po’ di conti e vediamo se ci stiamo dentro…”

“Torniamo al tuo ingresso nello staff del Pamali.”

“Come ti dicevo, io sono entrato nello staff all’epoca del Pamauro. Come ti hanno già raccontato, dopo dieci edizioni c’era tanta stanchezza, e poi c’era il COVID, e la consapevolezza che ci fossero troppe, troppe cose da fare in troppe poche persone. Insomma: era finita. Poi, con la morte di Mauro, si è rimesso in moto tutto. Al gruppo storico si sono unite forze fresche, compresa la mia, e il festival è rinato. Io faccio il dj da quando avevo 15 anni: non è mai diventata una professione che mi permetta, diciamo, di viverci, però insomma,  almeno negli ultimi 10 anni sono a budget e con quello che prendo dalle serate mi ripago i vinili, ecco. Negli anni ’90 suonavo prevalentemente hip hop, poi mi sono appassionato a tutta la parte black classica, al funk e a soul –  che era poi quello che l'hip hop campionava – e quindi progressivamente mi sono allontanato dal quella scena e sono andato all’origine dei suoi suoni. Allo stesso tempo ho iniziato a conoscere la musica giamaicana, il reggae, il dub. E quando mi capita di suonare in una situazione adatta, faccio dei DJ set misti, dove mescolo reggae, soul, funk, disco funk, anche un po’ di hip hop.”

“Venendo al Pamauro: dopo che Mauro era venuto a mancare volevamo fare quella che per noi avrebbe dovuto essere, tutto sommato, una piccola festa tra vecchi e nuovi amici in suo onore, e con l’occasione raccogliere un po’ di soldi in beneficenza per i progetti di cui in vita si era occupato. Ma poi tutto è cresciuto in fretta, senza che potessimo più fermarci. Anche il palchetto che avevamo trovato all’inizio non andava più bene, perché a un certo punto abbiamo coinvolto un gruppo di cumbia con 11 membri… e insomma abbiamo dovuto trovare un palco completamente diverso. Dopo che mi hanno chiesto se volevo partecipare come DJ, mi sono messo a disposizione anche per trovare gli altri DJ Set, e dopo un po’ Caio mi ha chiesto se mi andava di seguire la gestione delle band durante il festival. È andato tutto bene, e a quel punto Caio mi fa: ‘Fede, sei assoldato’ e quindi ho cominciato a occuparmi anche di quello che avviene prima, con la selezione dei gruppi, i contatti con le agenzie di booking, eccetera. Ed eccomi qui.”

 

I nuovi entrati tra quelli che abbiamo definito i “Marghera Gods” sono una decina: ad esempio c’è chi nella vita di ogni giorno fa l’elettricista, e allora durante il festival seguirà – come è comprensibile – uno degli aspetti più delicati di un evento che attira ormai migliaia di persone. Quanto allo staff storico, se oggi Valerio da Ros è il presidente dell’Associazione, il muratore Caio resta sempre un punto di riferimento per tutti, e, durante il festival è onnipresente (nel 2023 sono riuscito a parlare con lui solo nel pomeriggio di domenica inseguendolo tra una parte e l’altra del prato in cui stavano provando lo spettacolo di danza della sera). Non a caso, il discorso di ringraziamento a chiusura dell’edizione 2023 è suo. Ringrazia tutti, dai vicini del proprietario del terreno su cui sorge il Pamali, agli abitanti dei due comuni rurali di questa zona montana, al pubblico, allo staff e i volontari che “hanno creato questa magia” e agli artisti “che ci hanno fatto brillare…”, poi ha un attimo di esitazione, come chi temesse di essersi spinto un po’ in là con le metafore: “ma adesso non ho altre parole, perché non sono bravo per ste robe”.

Cacao Mental, Pamali Festival 2023

Quelli sul palco, e quelli sullo sfondo

Negli anni mi sono fermato a parlare con molti dei musicisti e dei DJ che si sono esibiti al Pamali. Tra le tante storie che ho raccolto, mi ha colpito quella dei Kartoffel Equipe, fondati da un giovane mestrino-moglianese che a un certo punto anche lui, come molti di quelli di cui ho parlato qui, deve essere stato esposto all’effetto dello stravedamento. Sia come sia, nel 2022 sente il richiamo irresistibile della montagna, molla il lavoro vicino a Venezia e va a vivere nelle Dolomiti, su in Cadore, dove fa il contadino, produce prodotti naturali di bellezza, e porta avanti il suo sound system. Il suo DJ set notturno è uno dei più convincenti tra quelli cui ho assistito in questi anni.

Ci sono poi i gruppi un po’ più grossi, come i Cacao Mental e i Babbutzi Orkestar, che ho già citato prima.

Kit David Ramos Cespedes dei Cacao Mental mi racconta della cumbia, della sue origini colombiane tra gli schiavi e i nativi: “sai, in realtà ha un significato particolare per noi. Cioè sì è musica popolare, ma anche qualcosa di più. Fa conto come se il liscio fosse considerato musica sacra. Poi, certo, i gruppi come il nostro vanno a contaminare quelle basi popolari con i suoni contemporanei, anche con la psichedelia.”

Dopo aver girato per un bel po’ in Sud e Centro America suonando come mariachi, “avevo deciso di spostarmi negli USA, ma l’occasione non arrivava. Casualmente invece mi capitò di venire qui in Europa. Inizialmente mi trasferii a Parigi. Lì però le cose non funzionarono molto. Avevo però parenti in Italia, a Pavia, e così decisi di ritentare la strada della fortuna qui. Le cose stavolta andarono meglio, e un po’ per volta ho trovato a Milano la mia dimensione.”

Gli altri del gruppo, il chitarrista Marco Pampaluna, il trombettista Stefano Iascone, confermano questa impressione di allegra precarietà che include anche dei momenti di vero e proprio successo nazionale, oltre il giro underground. Riprendendo le parole di David citare prima: “in definitiva questo siamo, degli umani adattabili… Adattabili alla vita.”

I Babbutzi Orkestar ricordano di quando, una quindicina di anni fa, ai loro esordi, erano arrivati ad avere un organico di nove musicisti. Suonavano musica balcanica, ma non si erano ancora spinti a fare delle loro canzoni. Nel 2014 “con il nostro primo album siamo usciti dalla balcanica in senso stretto.” così mi dice il cantante Gabriele Roccato. “E col tempo abbiamo dato un tratto distintivo alla nostra ‘musica da festa’ virando al surf e al punk”, come mi spiega Marco Motta, clarino e sax della band.

“Al Pornopunk, che è poi il titolo del nostro album del 2021.”

I Babbutzi fanno ballare giovani, fricchettoni, alternativi di mezza età e gente passata lì per caso come me in decine di date, anche in giro per l’Europa.

“Ma ce la fate? Intendo: si riesce a vivere di musica, oggi?” (questa che può sembrare una domanda idiota è, stringi stringi, la domanda delle domande quando non hai più diciott’anni e passare otto mesi l’anno in furgone potrebbe cominciare a chiederti il conto.)

“Eh, è un bello sbatti. Però alla fine, sai che c’è? C’è che ci divertiamo.”

La stessa serena, disincantata ma anche allegra malinconia che ho registrato decine di volte durante le mie interviste allo staff e agli artisti: il distacco gioioso di chi è rimasto a metà del guado, e probabilmente non arriverà mai ad esibirsi di fronte a 20.000 persone. Però va bene così, perché abiti nella terra della sera, e questa è la tua casa.

 

Ci sono poi tutti gli altri. Nelle tre edizioni in cui ho dormito nel campeggio libero ho scoperto una cosa che manderebbe in orbita qualsiasi etnografo e neo-etnografo che si rispetti: il contro-festival. Qui, tra i tanti ragazzi che arrivano ogni anno per il Pamali, c’è anche un piccolo ma combattivo drappello di campeggiatori che, messa giù la loro tenda o appoggiato alla meno peggio il loro camper mooolto vintage sotto le frasche, durante tutto il weekend si guarderanno bene dal mettere piede, fosse anche solo per bersi una birretta, nel festival che si sta tenendo a soli 50 metri di distanza. Alcuni di loro improvvisano sound system e  si danno a commerci vari, piazzano la loro arte, diciamo così, mentre gli altri del drappello sono felici fruitori di quest’arte.

“Ma allora ci avete fatto un salto al festival.”

“Sì, sì, bello.”

“E cosa vi è piaciuto?”

“Tutto.”

“Qualcosa, in particolare?”

“Tutto tutto. Cioè non so, forse ci facciamo un salto domani e poi ti so dire meglio.”

“Ma oggi è l’ultimo giorno.”

“E vabbé, pace.”

Tra le figure di sfondo ci sono, indubbiamente, le mamme e i papà come me, con figli ancora troppo piccoli per essere interessati alle notti di musica elettronica del festival, cosa che ci costringe a ritirarci all’ora di Cenerentola, quando il meglio deve ancora arrivare, e quelli della Yoga all’alba, che con i loro materassini prendono con gentilezza il posto degli ultimi sopravvissuti dei balli notturni. Altre figure di sfondo: i villeggianti dell’Overlook Hotel, e cioè la pensione Genziana sovrastante il terreno del festival, che ha chiuso i battenti nel 2019 e che, nonostante sembrasse più una nave affondata che un albergo, aveva un’ottima cucina, e bagni pulitissimi.

Ah ecco: i bagni. Tra le figure di sfondo c’è il ragazzo dello spurgo. Anche lui, come quelli dello Yoga, entra presto in azione la mattina. Il suo è il lavoro più importante, e più ingrato: rimettere ogni giorno in condizioni di presentabilità e buona utilizzabilità i bagni chimici.

Ci sono poi gli infermieri, con un’ambulanza parcheggiata discretamente a pochi metri dall’ingresso principale del Pamali. E i (forse) 22 abitanti del Passo San Boldo, contenti che per tre giorni questa vallata silenziosa si trasformi in un luogo di festa. Se credi almeno un poco alle connessioni, sai che questo gioioso rito pagano riscatta anche i prigionieri che un secolo fa costruirono il passo.

 

Pamali Festival, i tepee

Quando la marea si alza, le terre si ritirano

Al Pamali vedi tanti, tantissimi bambini, e tanti, tantissimi genitori giovani, appena o neanche ventenni. Da dove cavolo saltano fuori, visto che le statistiche mi ricordano ogni giorno che l’Italia è un paese in declino demografico NETTO (cioè neanche gli immigrati riescono a compensare lo spopolamento di questo paese)? Aggiungi poi che, appena fuori di qui, tornerai a respirare il clima torvo e sfiduciato, che conosci così bene, di un paese che si percepisce senza futuro. Chi ha ragione, chi ha torto?

C’è poi da dire che ora che la marea del cambiamento climatico si alza inarrestabile, sia realmente che metaforicamente, ci sta venendo a mancare la terra sotto i piedi, e non certo solo in Italia molte persone dubitano ormai che ci sia una via d’uscita (o peggio, cinicamente si ostinano a fare finta che non stia accadendo nulla, come fecero gli ultimi abitanti dell’isola di Pasqua mentre distruggevano per sempre l’ultimo albero). Perché allora insistere a fare figli, dicono gli smaliziati, soprattutto sui social? E di nuovo, quindi, ci chiediamo noi: sono i campeggiatori del Pamali e i Marghera Gods ad avere ragione, o forse loro sono solo gli ultimi illusi prima del diluvio?

La risposta forse è più grande di me, e fuori dalla portata e dagli scopi di questo racconto che ha condensato quello che ho visto di persona dal 2019 a oggi. Di una cosa però mi sono in questi anni convinto: qualsiasi cosa accada, la demografia è dalla loro parte.
Se c’è speranza, è qui, tra i pamalisti, che si trova.

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