"Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono", recitava un brano di Giorgio Gaber, da lui firmato assieme al fidato Sandro Luporini. Viene in mente proprio questo verso, quantomeno a chi scrive, quando si apprende che Alberto Segre, padre della più nota Liliana, rimase incredulo di fronte alla violenza manifestata dagli "attori" del regime fascista nel perseguitare gli ebrei, o all'indifferenza espressa nei loro confronti dai tanti "spettatori" silenziosi: italiani come gli ebrei, questi attori e spettatori, eppure così diversi da loro. Sbaglia chi scorge, negli scritti della Senatrice (segnatamente i volumi “La memoria rende liberi” e “Fino a quando la mia stella brillerà”, dai quali quest'opera teatrale è liberamente tratta), un "j'accuse" al regime nazista, giacché la donna invita gli italiani a riflettere su quanto fatto in Patria, nel corso degli anni '30 e '40, da connazionali a danno di altri connazionali. Si capisce, pertanto, quanto può essere scomoda per alcuni, costei, quando apre bocca: Primo Levi descrisse le atrocità del campo di concentramento, lei considera quest'ultimo quale destinazione finale di un percorso nefasto che partì anni prima dall'Italia, quella stessa Italia autoassolta e deresponsabilizzata dall'espressione "Italiani, brava gente", la cui apparente sembianza di brocardo lei stessa ha nel corso degli anni legittimamente demolito. Un messaggio, quello della ex deportata, che nel tempo si consolida potente ed infrangibile, qui sublimato da un'interpretazione e da una regia straordinariamente suggestive: da un lato c'è Alberta Cipriani, un'attrice che ha il pregio di inchiodare lo spettatore alla poltrona con un monologo che pare esprimere sforzi corali, come se in lei si incarnassero 10 attori contemporaneamente, facendo così rivivere la gioiosa Segre bambina, poi speranzosa adolescente, poi spenta internata, poi malata liberata, poi moglie innamorata, poi madre inaspettata, poi infine rediviva testimone; dall'altro un regista, Antonio G. Tucci, in grado di fare arditamente a brandelli l'impianto narrativo originario, per poi ricucirlo in ordine sparso, in maniera del tutto disorganica, quasi fosse un novello Tarantino, guidando finalmente lo spettatore in direzione del senso compiuto soltanto sul finire dell'opera. Unite assieme, l'esperienza di vita di Liliana Segre e quella artistica della coppia Cipriani/Tucci danno vita ad una rappresentazione che non ha soltanto il potere di scuotere le coscienze di chi non c'era, cioè tutti noialtri italiani odierni, ma ha il pregio di attualizzare il senso di certi gesti vissuti e patiti nel corso di quel periodo storico (ad esempio, mettendo in grado le generazioni attuali di riflettere sulla portata dello scellerato rigetto opposto dalla Svizzera alla richiesta d'asilo lanciata illo tempore dalla famiglia Segre). Dispiace, purtroppo, che ad una rappresentazione così profonda come questa, messa in scena per un giorno soltanto, la prestigiosa Sala Umberto, normalmente gremita di persone, sia invece piena soltanto per metà. In tal senso, il plauso va anche al direttore del teatro, Alessandro Longobardi, orgogliosamente presente in sala, il quale si è ostinatamente incaponito ad inserire un'opera del genere in cartellone, pur consapevole, da esperto organizzatore di spettacoli quale egli è, del suo ridotto potenziale economico. |
Teatro del Krak
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