La grande rinuncia di Benedetto XVI è un evento, la cui portata non è ancora stata del tutto spiegata e ancor meno compresa: in un mondo avvezzo ai rapidi cambiamenti, l’ultimo baluardo di un istituzione immutabile viene risucchiato dallo spirito del tempo. Nella storia della chiesa la rinuncia al papato era già avvenuta, raramente, ma la compresenza di due Papi mai: uno alle prese con un ruolo attivo e di governo, l’altro ritirato in preghiera in una dimensione contemplativa. La mise en scene, ripercorre l’ultimo periodo del pontificato di Benedetto XVI, interpretando troppo semplicisticamente l’idea di un vecchio, stanco, obsoleto mondo, che deve essere rottamato in favore di nuovi modi di interfacciarsi ai grandi cambiamenti in corso, adattandosi. C’è sicuramente uno schierarsi verso una parte, ritenuta portatrice di valori positivi e innovativi, e l’altra ritratta come chiusa, riflettente e statica. Una riduzione troppo superficiale, ben lontana dalla complessità dei fatti, troppo distante dalla vera figura di Benedetto XVI: difatti lo si descrive despota e con picchi di irascibilità , troppo stridente con le testimonianze dei suoi più stretti collaboratori che lo raccontano come uomo mite, umile e in ascolto. Le inesattezze sul personaggio di Joseph Ratzinger sono tante, ma non è di certo questo il contesto per confutarle puntualmente, ricordando che questa lungi dall’essere cronaca fedele è soltanto un interpretazione della vicenda, una versione dei fatti, immaginata piuttosto che documentata e tradotta abilmente in testo teatrale. Si rende merito agli attori, Giorgio Colangeli e Mariano Rigillo, di essere stati superlativamente convincenti nei ruoli, catapultando lo spettatore all’interno di luoghi normalmente inaccessibili, ma anche all’interno delle coscienze dei personaggi evidenziandone le fragilità. L’inserimento di battute di raffinato humor è stato a tratti "provvidenziale" per dissipare la tensione raggiunta nei dialoghi più densi di contenuti. In ultima battuta preme esaltare la sceneggiatura di Alessandro Chiti, apparentemente semplice, ma costruita come tre quinte telescopiche, atte ad accentuare profondità ed effetto prospettico: lo spazio scenico sembra ampliarsi riproducendo la maestosità del palazzo apostolico, della cappella Sistina o i giardini di Castel Gandolfo. Quando viene riproposta l’ambientazione più ristretta del palazzo di Buenos Aires, il diaframma della seconda quinta si chiude, in contrasto con gli ampi spazi vaticani. Se si guarda la commedia senza la pretesa di ritrovarvi verità storica, si possono apprezzare le introspezioni dei personaggi, gli scontri e incontri di due versioni di uomini nella stessa realtà, che nonostante le differenze operano la sintesi necessaria ad affrontare noti problemi con nuove prospettive. La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 11 aprile 2023 |
Giorgio Colangeli -Mariano Rigillo
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