The Dark Side Of The Moon
Esegesi di un'opera immortale
di Giuseppe Artusi
“The Dark Side Of The Moon” è per unanime consenso un capolavoro: un caso davvero raro – se non proprio unico – di album che fonde avanguardia, rumorismo, psichedelia, musica progressive e rock melodico, risultando però estremamente facile, fruibile, popolare nell’accezione più comune del termine. Un album che trascende ogni genere e il suo relativo pubblico: tanto semplice e accessibile, quanto raffinato, elaborato e cerebrale; tanto orecchiabile e gradevole, quanto ardito, provocatorio e sperimentale.
Soprattutto, tanto legato al suo tempo quanto ancor oggi attuale: non solo è uno dei cinque album più venduti della storia, ma ogni sua riedizione suscita interesse e successo di vendite:“E' un album veramente eccellente. Io non so come mai continui a vendere e vendere, non lo so. È come se avesse toccato un nervo scoperto. Sembra che tutti stessero aspettando quest'album, o meglio, che qualcuno facesse un album come questo...” (Rick Wright).
“Le idee che Roger ricercava interessano ogni nuova generazione, non hanno perso rilevanza” (David Gilmour).
Ottavo album del gruppo, Dark Side è l’album della maturità dei Pink Floyd, quello in cui per la prima volta i Floyd lavorarono relativamente senza pressioni, avendo a disposizione tempo, studi e mezzi tecnici all’epoca all’avanguardia. A muovere il gruppo era però una urgenza espressiva, la volontà di realizzare compiutamente l’idea di musica che lo animava:
“Era una lotta tra il desiderio di estendere i nostri confini e il bisogno di avanzare in modo sperimentale, e contemporaneamente restare melodici” (David Gilmour).
In questo senso Dark Side è certamente un punto di svolta nella carriera dei Floyd, un lavoro che segnerà tutti gli album successivi e la stessa storia della band, ma al tempo stesso è la prosecuzione, il compimento degli album precedenti. Infatti, come notano gli stessi musicisti, la genesi dell’album la si ritrova in “Echoes”:
“Se ascolti l’album ‘Meddle’, ed in particolare ‘Echoes’, puoi sentire in che direzione andavamo” (David Gilmour).
“Era innanzitutto un concetto e poi era l’inizio di scrivere su altra gente; era l’inizio dell’immedesimazione, per dirla in breve: ‘Stranieri passano in strada per caso, separando incontri impossibili / E io sono te, e quel che vedo sono io’. È una specie di filo conduttore che esiste da allora e in Dark Side si vede in modo più evidente ” (Roger Waters).
“C’eravamo tutti e quattro e discutemmo su come avremmo messo insieme l’album: ne avremmo fatto un album a tema, un concept” (Nick Mason).
“Il nostro approccio verso questo disco non fu affatto diverso dai precedenti, escludendo il fatto che si tratta di un album concept. Gli altri nostri lavori erano coerenti dal punto di vista musicale, ma nessuno possedeva un filo conduttore che unisse le due facciate” (Rick Wright).
Dalle discussioni, il tema che emerse e prese forma è quello delle condizioni, delle forze esterne che condizionano la vita dell’individuo nel mondo attuale:
“Ci sono un insieme di cose che esercitano influenza sull’individuo, che colorano la sua prospettiva esistenziale. Ci sono forze che ti spingono in una certa direzione e che ti spingono alla morte, alla pazzia, all’immedesimazione, all’avidità o altro. C’è un principio di fisica newtoniana interessante e su quella si basa l’album” (Roger Waters).
Musicalmente e stilisticamente molto vario, Dark Side è tuttavia compatto, omogeneo, continuo e fluido; a colpire è innanzitutto l’architettura dell’album: dal pulsante fade in di “Speak To Me” sino al finale ecumenico ma tutt’altro che consolatorio di “Eclipse”, i brani si susseguono in forma di suite, seguendo uno sviluppo narrativo che illustra la condizione dell’uomo contemporaneo, stretto tra il senso dell’esistenza (“Breathe”) e la paura della morte (“The Great Gig In The Sky”), le urgenze e le occasioni di conseguenza perdute (“Time”), lo stress dei viaggi e la paura di morire volando (“On The Run”), i rapporti economici e i conflitti sociali (“Money”), i conflitti politici e la guerra (“Us And Them”), lo smarrimento e la perdita della personalità (“Brain Damage”) indotti dalla vita quotidiana. Il risultato è coinvolgente ed emozionante; attraverso un percorso emozionale espone e porta alla presa di coscienza del modo di vita attuale:
“L’album è guidato dalle emozioni, non c’è nulla di artificioso o forzato, e penso che sia questo uno dei motivi della sua longevità” (Roger Waters).
“Dark Side è un bell’album con una ricchezza strutturale e concettuale che non solo invita, ma richiede coinvolgimento” (Alan Parsons, ingegnere del suono dell’album).
Una volta individuato il tema, dal punto di vista della musica quel che avevano però non era molto: qualche spezzone rimasto dagli album precedenti e un paio di brani abbozzati, su tutti il tema di “Us And Them”, preparato per “Zabriskie Point” ma rifiutato da Antonioni. Buona parte dell’album nacque così durante lunghe jam session in una sala prove, secondo il procedimento usuale della band:
“Suonavamo per due ore in Mi minore o in La e così avevamo altri cinque minuti di musica. “ (Roger Waters).
Insomma una specie di ‘cominciamo a suonare e vediamo un po’ che succede’. Che questa fosse diventata, dopo “A Saucerful Of Secrets”, la prassi compositiva dei Floyd, lo confermano poi le parole di Nick Mason che descrivono col consueto humour le fasi che avevano portato alla realizzazione di “Meddle”:
“In mancanza di canzoni nuove, ci inventammo gli stratagemmi più disparati nel tentativo di accelerare il processo di creazione musicale. Tra questi c’era l’idea di suonare su piste separate, senza alcun riferimento a quello che facevano gli altri del gruppo. Suggerivamo semplicemente delle atmosfere, tipo ‘i primi due minuti romantici, poi due dinamici’. Chiamammo questi appunti sonori ‘Nothings’, un titolo quanto mai adatto. Dopo alcune settimane non era uscito pressoché nulla di buono e comunque nessuna canzone completa. Dopo ‘Nothings’, passammo a produrre ‘Son of Nothings’, seguito da ‘Return of the Son of Nothings’…” (Nick Mason).
L’analisi dei brani di Dark Side conferma questa strana condizione creativa; presi e analizzati uno per uno non sono granché, nella loro struttura elementare si rivelano per essere semplici giri di blues o sequenze di accordi di origine jazzistica. È lo stesso Waters ad ammetterlo:
“Ancora mi colpisce di averla fatta franca: è talmente infantile…” (Roger Waters).
In effetti, i brani di Dark Side in senso stretto non sono nemmeno canzoni, oppure hanno una struttura esilissima. ‘Breathe’, ad esempio, è un frutto delle jam sessions preliminari; l’ascolto delle registrazioni di preparazione rivela subito che non è nient’altro che un giro di blues, la cui evoluzione in canzone strutturata non può reggere oltre i tre minuti scarsi della sua effettiva durata. Anche “Eclipse” ha origine come improvvisazione: era un brano che i Floyd suonavano da tempo nei concerti:
“La suonavamo dal vivo già da un po’, come una specie di brano improvvisato, ma nessuno di noi ne era veramente soddisfatto” (David Gilmour).
Ancor più chiara è la genesi di “Any Colour You Like”: una semplice base rock-blues su cui Wright e poi Gilmour disegnano variazioni e abbellimenti, e qui si rivela tutta l’estrazione jazzistica del tastierista:
“Vengo dal jazz, è la mia musica preferita, la mia fonte di ispirazione” (Rick Wright).
Non solo, l’accordo chiave che rende così peculiare e suggestivo “Breathe” viene dal capolavoro di Miles Davis, “Kind Of Blue”:
“C’è un accordo speciale che ho sentito in ‘Kind Of Blue’ di Miles Davis. Quando suonavamo ‘Breathe’, io suonavo in Sol, e come passare al Mi? Mentre a casa cercavo la soluzione, mi ricordai di quell’accordo…” (Rick Wright).
“Brain Damage” poi non è che una filastrocca di stampo barrettiano che non ha però l’estro, la fantasia e l’imprevedibilità del modello: a renderla memorabile è il vestito, cioè l’arrangiamento e gli accorgimenti tecnici, come gli echi e i raddoppi delle voci.
La stessa “The Great Gig In The Sky”, epica e celebratissima, in origine è una meditabonda e malinconica sequenza di accordi, essenzialmente una elegia funebre, che rivela di nuovo l’estrazione e la passione jazzistica di Richard Wright: l’ascolto del primo missaggio del disco, pubblicato nel box “Immersion”, mostra un brano completamente diverso da quello conosciuto e si rivela, pur nella sua suggestività, alquanto inconcludente, poco più che un intermezzo strumentale per quanto di gran classe. I Floyd ne erano ben consapevoli, tanto da decidere prima del missaggio finale di arricchirlo con vocalizzi femminili; su suggerimento di Alan Parsons, chiamarono la vocalist Clare Torry, senza però dare indicazioni precise sull’interpretazione da dare, senza dirle niente altro che provare a farci qualcosa su, pensando alla morte o a qualcosa di macabro. In sostanza non avevano nemmeno una benché minima idea melodica da sviluppare:
“Sapevamo ciò che volevamo. Musicalmente non era ancora chiaro, ma volevamo qualcuno che improvvisasse sopra a questo pezzo” (Rick Wright).
È storia nota che la performance della cantante, totalmente improvvisata e assolutamente sopra le righe, abbia sbalordito i quattro, mentre la Torry pensò di aver esagerato, scusandosi per aver toppato l’interpretazione:
“Uscì e si scusò, disse che era imbarazzata mentre a noi era parsa magnifica” (Rick Wright).
“Ha fatto una improvvisazione, era incredibile. Fu durante il missaggio finale” (Chris Thomas, supervisore al montaggio).
È anche vero che il tappeto sonoro fornito da Wright si è rivelato assolutamente suggestivo, ma la Torry anni dopo intentò causa al gruppo, reclamando i diritti di autore per il brano: il tribunale le diede ragione, e non è difficile capire perché.
Il fatto è che i Pink Floyd sono diventati compositori per necessità; almeno nei primi periodi, non ne avevano molto l’attitudine, per loro stessa ammissione:
“Sostanzialmente, nella band si notava la presenza di studenti di architettura. Sarebbero stati capaci di mettersi lì con un pezzo di carta e avrebbero cominciato così: deve andar dritto di qua e poi dritto in alto... e avrebbero disegnato cime e avvallamenti come si fosse trattato di una mappa, calcolando dove il pezzo sarebbe dovuto andare a finire.” (David Gilmour).
“Per fortuna non abbiamo mai dovuto fare singoli, altrimenti non avremmo mai realizzato lavori interessanti” (Roger Waters).
“Credo che ogni album precedente sia stato un passo verso The Dark Side Of The Moon, in un certo senso. Abbiamo continuato ad imparare le tecniche di registrazione, ed anche il nostro modo di scrivere è andato via via migliorando.” (Rick Wright).
Del resto, una volta estromesso Syd Barrett dalla band, per contare tra le loro canzoni propriamente dette quelle realmente memorabili bastano le dita di una mano: “Summer 68”, “Fearless”, “Wish You Were Here”, “Comfortably Numb”, “Another Brick In The Wall”, e poi poco altro; più mestiere e colpi di fortuna che genio musicale, a conti fatti:
“Dopo che Syd nel 1968 impazzì e David si aggiunse al gruppo eravamo tutti alla ricerca, ci chiedevamo come dovevamo continuare; lui era quello che creava tutti i brani, era il cuore pulsante della band.” (Roger Waters).
La stessa “Money”, la loro canzone di maggior successo commerciale, è un curioso pastiche, con una melodia decisamente poco ortodossa costruita su un giro in 7/8, che poi a metà si trasforma in un rock-blues 4/4 midtempo, tanto robusto quanto convenzionale.
Oltre a questo, va considerato che i quattro Pink Floyd non sono virtuosi dello strumento; i soli Wright e Gilmour avevano sin dagli inizi una solida base tecnica, peraltro il primo, come abbiamo visto, con la passione del jazz mainstream, quindi amante di sonorità suggestive e d’atmosfera, e in ogni caso interessato più all’architettura del brano, al suo arrangiamento che agli assolo; il secondo proveniente dal blues, quindi con un gusto musicale parimenti orientato più all’espressività e all’emozione che all’effetto. Waters e Mason invece erano degli adattati allo strumento, semplicemente perché nei gruppi in cui avevano suonato c’era sempre qualcuno più bravo di loro alla chitarra:
“Roger venne nominato chitarrista ritmico; fu relegato al basso solo in seguito, quando la concomitanza dell’arrivo di Syd Barrett e del rifiuto di Roger di spendere il denaro necessario per cambiare la chitarra acustica con una elettrica lo costrinse ad assumere un ruolo meno prestigioso. In seguito avrebbe commentato ‘Grazie a Dio non sono stato retrocesso alla batteria’. Devo dargli ragione. Se Roger avesse preso il mio posto, penso che avrei finito per fare il facchino al seguito del gruppo…” (Nick Mason).
Il caratteristico ‘4/4 lento’ rigorosamente in battere, tratto distintivo del sound del gruppo, con la continua ricerca di paesaggi sonori, di atmosfere evocative o subliminali e quant’altro, ha quindi tra le sue origini tanto la scarsa attitudine alla scrittura musicale dei quattro, quanto le loro formazioni musicali e le relative abilità di ciascuno:
“Le sezioni individuali di Ummagumma dimostrano, a mio avviso, il fatto che le parti, prese singolarmente, non valevano sicuramente la loro somma” (Nick Mason).
E parlando dell’incisione da parte di Waters e dello stesso Mason della sezione ritmica della lunga suite “Atom Hearth Mother”:
“Suonare il pezzo senza gli altri strumenti significava dare fondo alle nostre, peraltro limitate, abilità di strumentisti senza commettere errori” (Nick Mason).
Il che non vuole essere in nessun modo una critica o uno sminuire il valore artistico del loro lavoro dei Pink Floyd, tutt’altro; dopotutto, la figura capitale della musica rock dalla fine degli anni ’70 in qua è quella di un non-musicista: Brian Eno…
Il punto è piuttosto che l’immenso e universale fascino di The Dark Side Of The Moon sta da un’altra parte, e non ha molto a che fare né con la qualità delle composizioni né con quelle dell’interpretazione intesa in senso stretto. Va in effetti aggiunto che nessuno dei tre vocalist del gruppo – Gilmour, Wright e Waters – è propriamente un cantante: anche qui, il loro caratteristico cantato sognante, evocativo, è piuttosto figlio di estensioni vocali limitate, timbriche poco impressive ed emissioni non granché potenti, per cui le interpretazioni sono sempre piuttosto lineari, corrette o poco più: Greg Lake, Jon Anderson, Peter Gabriel e Phil Collins sono, per stare al genere, oggettivamente cantanti di tutt’altro livello. Semmai, l’effetto onirico è amplificato dalle timbriche molto simili delle voci di Gilmour e Wright, che permettono suggestivi raddoppi armonici:
“Credo che l’armonia vocale di Dave e Rick funzioni molto bene nel gruppo, le loro voci si assomigliano e il modo in cui si sovrappongono è un punto di forza di Dark Side” (Roger Waters).
Tranne i due brani finali, “Brain Damage” ed “Eclipse” – cantati da Waters –le altre canzoni sono cantate da Gilmour, raddoppiato da Wright in “Time” e “Us And Them”, mentre in “Breathe” i raddoppi sono dello stesso Gilmour. In effetti il gioco di voci è uno dei segreti di The Dark Side Of The Moon: per il loro gioco armonico, innanzitutto, e poi per il tappeto fornito dalle voci femminili; ma il vero segreto sta negli echi applicati, che rendono il tutto profondo, ambientale e quasi lontano, quindi evocativo, vagamente inquietante e misterioso; un effetto particolarmente evidente in uno dei brani forti di Dark Side, “Us And Them”:
“Durante la scrittura è stato lasciato spazio per l’eco.” (Roger Waters).
“È strano ascoltarlo senza eco…” (Alan Parsons).
Ma tutto ciò che compare nell’album – le voci, la chitarra di Gilmour, il pianoforte – è filtrato attraverso l’effetto eco; il risultato è quella caratteristica spazialità, profondità ambientale che contraddistingue Dark Side e lo rende così suggestivo, struggente, onirico e naturalmente gradevole all’ascolto.
Dark Side è la perfetta espressione dell’idea musicale dei Floyd: il ritmo lento, vagamente ipnotico, della loro musica, trova il suo compimento lasciando, o meglio creando lo spazio per l’inserimento di echi, effetti, rumori. È una costante di gran parte dei brani dei Pink Floyd: 4/4 in battere, scandito metronomicamente dalla sezione ritmica, tastiere sullo sfondo a determinare l’armonia e battute vuote tra una frase musicale e l’altra:
“Lavorando come produttore con altri musicisti, mi trovo spesso a dire: ‘lascia uno spazio qui, suona una mezza battuta e poi lasciane una e mezzo libera, semplicemente vuota’” (Roger Waters).
In Dark Side il risultato è un insieme di brani ordinati in modo apparentemente casuale, privo di continuità stilistica, ma in realtà strutturato in un senso fortemente orientato al senso complessivo. L’uso di rumori ambientali, così come quello del parlato è in sostanza l’applicazione del concetto semiotico elaborato dai formalisti russi, quello di “ostranenie”, ossia lo straniamento, il rendere sorprendente e quindi nuovamente interessante il quotidiano. Usare il suono di un registratore di cassa, il rumore dei passi, lo sfrecciare di un motore, li isola dal contesto ordinario, e decontestualizzandoli li rende immediatamente percebili con un effetto drammatico vagamente disturbante e angosciante.
Questa ricerca è stata una costante nella carriera del gruppo, che ha sempre ricercato effetti e rumori per cavarne risultati musicali interessanti e originali, sin dal tempo di “Astronomy Domine”, passando per “A Saucerful Of Secrets”, “Alan’s Psychedelic Breakfast”, “Fearless” e “One Of These Days”, tanto che concepirono anche l’idea di un album realizzato con i suoni di oggetti domestici, “Household Objects”. In Dark Side la grande novità era costituita dalla disponibilità dei sintetizzatori morph, il VCS3 e il Synthi AKS. Si tratta di due modulatori di frequenza (il secondo era la versione avanzata del primo, con la presenza di una tastiera); funzionavano inserendovi un suono registrato e modulandolo per produrre dei loop; “On The Run” venne realizzata interamente in questo modo, anche perché ancora una volta le parti melodiche ed armoniche di chitarra e tastiere così come elaborate dal vivo non erano all’altezza:
“Volevamo proprio creare un pezzo che rimpiazzasse la precedente versione. Ovviamente Roger volle dire la sua e secondo lui la sequenza di otto note che avevo inserito – che non era questa – non andava bene, ne voleva una diversa che poi aggiunse e io dovetti ammettere che era migliore” (David Gilmour).
“Curiosamente questo venne immortalato nel film ‘Pink Floyd at Pompeii’ perché il regista, Adrian Maben, si trovava nello studio mentre ci stavo lavorando” (Roger Waters).
Anche l’overture del disco, “Speak To Me”, è frutto di una sperimentazione sonora mirata a suscitare una reazione emotiva:
“Inizialmente avevamo cercato di creare un battito cardiaco in apertura del pezzo, utilizzando registrazioni ospedaliere di veri battiti cardiaci; i ritmi però sembravano tutti troppo affannosi. Tornammo a sfruttare le possibilità offerte dagli strumenti musicali e usammo una bacchetta più morbida su una grancassa imbottita, riuscendo stranamente a produrre un suono che sembrava più fedele alla realtà, anche se, dato che la media di 72 battiti al minuto era troppo veloce, la rallentammo ad un livello che avrebbe destato qualche preoccupazione in un cardiologo” (Nick Mason).
“È una allusione alla condizione umana e prepara il terreno alla musica che descrive le emozioni sperimentate nel corso di un’esistenza. In mezzo a tanta confusione ci sono bellezza e speranza per l’umanità: gli effetti hanno lo scopo di aiutare l’eascoltatore a comprendere tutto ciò” (David Gilmour).
Altrettanto straniante ed efficace risulta l’uso dei frammenti parlati che punteggiano l’album: benché non costituissero certo una novità, il loro effetto drammatico è ancor oggi sconvolgente, proprio per la funzione che svolgono nel contesto narrativo dell’album. Furono concepiti poco prima del missaggio finale e realizzati in una notte; i Floyd avevano una idea molto chiara di ciò che volevano ottenere, e per realizzarli Waters ideò un sistema molto efficace:
“Roger abbozzò una serie di domande sulla pazzia, sulla violenza e sulla morte. Distribuimmo i cartoncini capovolti sul tavolo della cabina di registrazione, poi invitammo in studio chiunque si trovasse nei paraggi del palazzo di Abbey Road: la nostra crew, i tecnici, altri musicisti che lavoravano lì – chiunque tranne noi. Chiedemmo loro di sedersi, leggere ogni carta mentalmente e poi dare la loro risposta nel microfono” (Nick Mason).
Tra gli invitati, vi furono Paul e Linda McCartney, ma le loro risposte non vennero utilizzate perché furono troppo prudenti e molto riservati:
“Furono molto meno spontanei della gente comune, che sembrava quasi contenta di dilungarsi e chiacchierare” (Nick Mason).
È proprio lo stridente contrasto tra il tono colloquiale delle frasi, messe a commento dei vari brani, e il contesto drammatico costituito dalla musica a creare lo straordinario pathos, la tensione di molti momenti dell’album: un magistrale esempio di straniante decontestualizzazione.
“Gerry O’Driscoll, il portiere irlandese del palazzo, fu senza dubbio la vera star. Ci raccontò un torrente in piena di barzellette e di saggezze popolari, venate da una punta di malinconia. La sua voce chiude l’album sulla dissolvenza di ‘Eclipse’ e la sua battuta ‘There is no dark side in the moon. Matter of fact, it’s all dark’ contribuì a farci decidere il titolo definitivo dell’album” (Nick Mason).
Allo stesso O’Driscoll appartiene anche la dichiarazione che appare all’inizio di “The Great Gig In The Sky”: “I’m not frightened of dying, any time will do, I don't mind. Why should I be frightened of dying? There’s no reason for it, you’ve got to go sometime” (“Io non ho paura di morire, ogni momento è buono, non m’importa. Perché dovrei aver paura di morire? Non ce n’è motivo, prima o poi te ne devi andare”).
Tra gli altri memorabili interventi vocali, vi sono quelli dei roadies Roger ‘The Hat’ Manifold che descrisse un alterco con un automobilista (“I mean, they’re not gunna kill ya, so if you give ‘em a quick short, sharp, shock, they won’t do it again, dig it?…”, “Voglio dire, non è che ti ammazzano, perciò se gliene dai una forte e rapida, loro non lo fanno più, capito?”, in “Us And Them”; e poi in “On The Run”: “Live for today, gone tomorrow, that’s me, ahahaaaaaa!”, “Vivi per il presente, domani potresti essere andato. Io sono così”) , Chris Adamson (“I’ve been mad for fucking years, absolutely years. I’ve been over the edge for yonks. Been working me buns off, ‘til I went crazy...”, “Sono stato matto per fottuti anni, un sacco di anni. Sono stato oltre il limite per tantissimo. Ho lavorato sino a bruciarmi, fino a che sono impazzito…”, ripetuto in loop in “Speak To Me”, e poi “I was just telling him it was in, he could get it in number two. He was asking why it wasn't coming up on freight eleven. After, I was yelling and screaming and telling him why it wasn't coming up on freight eleven. It came to a heavy blow, which sorted the matter out”, “Gli stavo solo dicendo che c’era, che era al numero due. Mi stava chiedendo perché non fosse arrivato al carico undici. Dopo, stavo urlando e gridando e dicendogli perché non era arrivato al carico undici. È arrivato un colpo duro che ha risolto la questione”, in “Money”) e Jerry Driscoll (“I’ve always been mad. I know I’ve been mad, like the most of us are. Very hard to explain why you’re mad, even if you’re not mad”, “Sono sempre stato pazzo, so di esserlo sempre stato, come molti di noi. Molto difficile dire perché sei pazzo, anche se non lo sei”, sempre in “Speak To Me”). La risata isterica presente in “Speak To Me” e “Brain Damage” appartiene ad un altro roadie, Peter Watts – è uno dei due che appare nel retro di “Ummagumma”, quello a destra; tra l’altro è il padre dell’attrice Naomi Watts –, mentre la voce urlante che alla fine della stessa “Speak To Me” introduce “Breathe” è quella della sua seconda moglie, Patricia ‘Puddie’, la cui voce appare anche verso il finale di “The Gig In The Sky” (all’incirca al minuto 3:30, “I never said I was frightened of dying”, “Non ho mai detto di aver paura di morire”) e in uno degli interventi sul finale di “Money”. La sola dichiarazione utilizzata di qualcuno di famoso è del membro degli Wings, Henry McCullough: “I dunno, I was really drunk at the time”, tra la fine di “Money” e l’inizio di “Us And Them”:
“Henry e sua moglie avevano litigato furiosamente la sera prima; chiesi a Henry se aveva ragione e Henry disse ‘Non lo so, ero davvero ubriaco in quel momento” (Roger Waters).
I dialoghi sono anche usati, con la medesima tecnica dello straniamento, in funzione narrativa, come raccordo tra i brani. “Money” parla del potere del denaro e dei conflitti economici, e si conclude con i famosi versi “Il denaro, così dicono / è alla radice di ogni male odierno / ma se chiedi un aumento / non è una sorpresa che non te ne diano affatto”. A questo punto si inseriscono alcuni parlati di voci diverse (tra le quali quelle di Chris Adamson e Gerry O’Driscoll) che sembrano commentare la frase finale: “Yes, absolutely in the right!”, “I certanly was in the right!”, sino a che la voce di ‘Puddie’ Watts afferma “Yeah, I was definitely in the right. That geezer was cruising for a bruising!” (“Sì, avevo assolutamente ragione. Quel vecchio scemo andava in cerca di botte!”), introducendo il tema del conflitto e della violenza di cui parla il successivo “Us And Them”, e suggerendo quindi che i conflitti e le guerre siano determinati da ragioni economiche; il che riflette perfettamente le opinioni politiche di Waters e dei Pink Floyd.
La scelta di fare musica con rumorismi, effetti elettronici, dialoghi, fa di Dark Side un album di avanguardia musicale a tutti gli effetti, ed è significativo che abbia avuto e abbia tuttora quello straordinario successo, perché sono davvero pochissimi gli album di avanguardia ad aver raggiunto il successo totale e nel tempo, e nessuno a quel livello. I Pink Floyd potranno non essere eccelsi musicisti o autori, ma la sensibilità artistica, l’inventiva, la capacità di comunicare idee e suscitare emozioni dimostrate con The Dark Side Of The Moon testimoniano più di ogni altra cosa la grandezza del gruppo. Va infatti sottolineato come il controllo del processo artistico fosse raffinatissimo e consapevole; l’utilizzo di effetti ambientali ed elettronici e quello delle voci parlanti risponde a due logiche speculari ed opposte di produzione artistica. In un primo caso, la sperimentazione consiste nel provare soluzioni nuove, sconosciute, curiose o bizzarre, valutando i risultati per espanderli ed elaborarli successivamente, con un procedimento creativo e libero, come nel caso di “On The Run”:
“Quel loop esprimeva una certa sensazione di urgenza che unito al rumore dei passi, agli annunci aeroportuali e a Roger ‘The Hat’, il roadie che si sente ridere alla fine sembrava avere un senso” (Roger Waters).
“Succedono un sacco di cose strane in Dark Side, cose magiche, senza averle veramente volute” (Rick Wright).
Nel caso invece degli inserti delle conversazioni, così come per gli orologi di “Time” e il registratore di cassa di “Money”, l’effetto che devono produrre è ben chiaro, immaginato e pianificato prima della loro realizzazione. Eppure il tutto appare funzionale, conseguente e armonico allo stesso modo, ed è la magia di cui parla Wright. Così, al lato sperimentale fanno da contraltare arrangiamenti eleganti, raffinati, mutuati dalla musica di consumo: è anche grazie alla presenza delle coriste soul e del sax di Dick Parry che il suono di Dark Side risulta largamente accessibile e “commerciale”. Rispetto a tantissimi altri esempi in cui l’accostamento aveva un significato e un effetto generalmente ironici – Frank Zappa giocò moltissimo sul contrasto alto/basso in tutta la sua carriera, e gli stessi Pink Floyd ricorsero spesso a jokes analoghi specie ai loro inizi, senza contare il fatto che le filastrocche di Syd Barrett erano in sé un gioco tra cultura popolare e tendenze espressive nuove e radicali – l’utilizzo di stilemi di consumo negli arrangiamenti di Dark Side hanno viceversa precisamente lo scopo di rendere popolare l’album; è in questo modo che gli effetti di straniamento indotti dagli inserimenti sperimentali risultano più potenti ed efficaci.
Al tempo, si parlava di ‘psichedelia’, ma è un termine che non solo sminuisce enormemente il valore artistico dell’album, ma che soprattutto non ne individua il senso. L’obiettivo di Dark Side non è affatto quello di suscitare stati mentali, di eccitare o rilassare la mente, di portarla lontano esplorando nuove sensazioni: al contrario, esso ha di mira una presa di coscienza critica, lucida, razionale della condizione umana attuale:
“Dark Side of the Moon era una espressione di carattere politico, filosofico e umanitario che doveva essere comunicata” (Roger Waters).
La critica sociale e culturale è diretta e spietata, ed è espressa – per la prima volta dal gruppo – con testi semplici, chiari ed incisivi, a volte ironici al limite del sarcasmo, una tendenza quest’ultima che si sarebbe in seguito acuita in album come “Animals” o “The Wall”:
“L’idea di base era fare qualcosa di meno astratto rispetto al passato” (Roger Waters).
La forza dei testi di Dark Side sta precisamente nella loro pregnanza, nella loro capacità di farsi poesia universale, cioè di raccontare una condizione umana condivisa. Versi come “Tener duro nella quieta disperazione è il modo di vita inglese / Il tempo è andato, la canzone è finita, anche se avrei qualcos’altro da dire” hanno la potenza dei classici, quella capacità di descrivere una condizione esistenziale con parole che emozionano e commuovono proprio per quanto sono comuni e sanno parlare a tutti. La loro chiarezza e semplicità, quindi la loro relativa accessibilità, hanno contribuito al successo mondiale dell’album, anche presso il pubblico non anglofono, in quanto sono essenziali per comprendere il significato del lavoro:
“Per la prima volta, ritenemmo opportuno stampare i testi per intero sulla copertina dell’album” (Nick Mason).
Come abbiamo visto, nei testi e più in generale nell’assunto di fondo dell’album trova espressione la posizione politica dei Pink Floyd, notoriamente di sinistra. Parlando dei suoi rapporti con Waters, Mason ricorda:
“Dal punto di vista delle idee politiche, il nostro background culturale era molto simile. La madre di Roger era un ex membro del Partito Comunista e una fedele sostenitrice dei laburisti. Anche i miei genitori avevano percorso un iter simile: mio padre era entrato nel Partito Comunista per reazione al fascismo; poi allo scoppio della guerra divenne un funzionario del sindacato dei tecnici cinematografici. Anche le nostre rispettive fidanzate e future mogli provenivano dallo stesso ambiente politico” (Nick Mason).
Se la scelta del titolo dell’album fu una gestazione lunga e controversa (esisteva già un album con quel titolo così il gruppo inizialmente ripiegò su “Eclipse”, per poi tornare all’idea iniziale, anche sulla scorta della dichiarazione del portiere di Abbey Road), quella della copertina fu rapidissima e a colpo sicuro:
“La presentazione del progetto fu una cosa breve. Portai alcune idee, entrarono, ci diedero un’occhiata e dissero ‘Quella’. Visto che la scelta fu così veloce, il progetto ci aveva azzeccato: non puoi neanche immaginartelo senza quella copertina” (Storm Thorgerson, grafico).
“Fu un parere unanime, assolutamente evidente” (Roger Waters).
Impossibile non essere d’accordo, e non solo per lunga abitudine: il prisma che rifrange la luce è una delle copertine iconiche del rock. Wright aveva chiesto a Thorgerson qualcosa di semplice, immediato, e quel disegno è rimasto nell’immaginario collettivo delle generazioni di lì a venire. Ma è anche un artwork complesso e raffinato: il fascio di luce che si scompone prosegue in maniera precisa all’interno della copertina, dove il verde assume la forma di un cardiogramma – richiamo all’introduzione e alla conclusione del disco – per continuare nel retro, dove un prisma rovesciato ricompone il fascio bianco che prosegue nuovamente nella fronte; un effetto che si perde nelle confezioni dei cd. La combinazione tra la semplicità del concetto e il suo complesso sviluppo lascia campo aperto e fertile alle più varie interpretazioni simboliche, ed è questo il suo vero punto di forza:
“Il prisma ricorda una piramide, qualcosa di ambizioso, cosmico e folle allo stesso tempo, perché le piramidi sembravano un simbolo di pazzia e avidità: temi presenti nei testi dell’album” (Storm Thorgerson).
“Molta gente vedendo le piramidi pensa a Dark Side Of The Moon” (Rick Wright).
Dal punto di vista tecnico, per molto tempo è stata opinione comune (lo è in parte ancora) che l’album rappresenti una delle vette dell’arte della registrazione e produzione di un disco: non è propriamente così. Intendiamoci, dal punto di vista dell’incisione e del missaggio il disco è senz’altro un esempio di stato dell’arte relativamente alla prima metà degli anni settanta, ma di quel periodo ne rappresenta anche i limiti. Per realizzarlo vennero impiegate quantità enormi di nastri e di registrazioni; il mixer a 24 piste – al tempo assolutamente all’avanguardia – tuttavia non bastava per contenerle tutte: si dovette procedere ad un colossale lavoro di riversamenti e premissaggi, ovviamente su nastri magnetici, il che comportò, di passaggio in passaggio, una lieve ma esponenziale perdita di qualità del segnale:
“L’originale Dark Side Of The Moon che tutti conoscono e amano è un nastro di terza generazione. Gran parte delle batterie, dei bassi e delle chitarre ritmiche erano contenuti in un missaggio a due tracce” (David Gilmour).
Il risultato è un suono tendenzialmente ovattato e non troppo dinamico. L’equivoco sulla qualità del prodotto finito nacque innanzitutto per i sorprendenti effetti ottenuti (e questo è condivisibile), ma soprattutto per come essi si disponevano spazialmente sui due canali stereo: erano necessarie le migliori fonti di riproduzione per apprezzarli. Che poi ascoltandolo, si ricerchi e si apprezzi il tipico suono del tempo, è ovviamente un altro discorso. Discutere infine se siano migliori le varie rimasterizzazioni digitali (e quali), in quale formato (vinile, cd, SACD, DVD Audio, blu ray, PCM, DSD e quant’altro) o le prime stampe in vinile del tempo, è una questione che probabilmente non ha una risposta assoluta e definitiva.
Come che sia, Dark Side è a tutti gli effetti un prodotto di puro artigianato artistico. Con l’avvento del digitale, tutte le procedure di missaggio, le dissolvenze, i campionamenti, sono semplicisissimi e possono essere realizzati anche con normali computer domestici, ma prima di allora le cose stavano in modo completamente diverso: tutto doveva esser fatto con sforzi di fantasia, esperienza e tanta abilità manuale; è una cosa di cui oggi fatichiamo a renderci conto. La realizzazione di Dark Side comportò una quantità sproposita di montaggi, premissaggi, dissolvenze in entrata, in uscita e incrociata; tutto doveva essere naturalmente calcolato al decimo di secondo, senza contare la gran quantità di nastri che dovevano girare contemporaneamente e in perfetta sincronia:
“Pur con la sua esperienza tecnica, Alan Parsons non aveva mani a sufficienza per svolgere tutti i compiti necessari, per cui i punti iniziali venivano attentamente contrassegnati sul nastro e tutti i membri della band venivano posizioni con le dita a mezz’aria su vari tasti. Le macchine venivano poi fermate e riavviate, mentre mani tremanti azionavano i comandi del fader. Un singolo errore significava ricominciare l’intera procedura da capo… L’importanza di tutto questo lavoro di squadra sincronizzato era di ottenere i livelli corretti per un brano che finiva, un altro che iniziava, e tutti gli effetti sonori e il dialogo che sfumavano o crescevano in dissolvenza sullo sfondo” (Nick Mason).
Tra l’ideazione dell’album e la sua pubblicazione (l’1 marzo 1973 negli USA, e il 24 marzo nel Regno Unito) passò più di un anno, anche perché nel frattempo il gruppo fu impegnato in tournée e in altri progetti, tra i quali la realizzazione della colonna sonora del film “La Vallée”, pubblicata col titolo “Obscured By Clouds”. In effetti le sessions di registrazione furono due, nel maggio ’72 e gennaio ’73. È comunque significativo che un album come The Dark Side Of The Moon, apparentemente così strutturato da poter essere considerato un tipico lavoro di studio, abbia in realtà avuto un robusto rodaggio live – il che contribuì, a detta degli stessi musicisti, alla sua maturità – e che comunque fosse concepito anche in vista della sua esecuzione in concerto.
Il risultato comunque fu pienamente all’altezza delle aspettative della band, che sentì di aver realizzato quanto desiderava:
“Mi ricordo ancora il momento quando ascoltammo tutto il mix in una volta e pensai: abbiamo fatto qualcosa di fantastico” (David Gilmour).
“Dopo aver finito Dark Side, ero seduto nello studio di registrazione a sentire il prodotto finito per la prima volta, pensai: questa è una gran cosa.” (Rick Wright)
Per un curioso paradosso, The Dark Side Of The Moon, album che parla di stress, alienazione, smarrimento esistenziale e crisi di identità, venne realizzato in un momento di grande serenità per il gruppo e per i quattro singoli membri, ma il suo successo finì per destabilizzare i quattro:
“All’epoca non stavamo vivendo alcuna angoscia particolare: anzi era uno dei momenti più stabili per le nostre vite private. Era uno di quei bei momenti che ogni band vive prima o poi: eravamo unanimi ed entusiasti dell’idea e c’era comune accordo sulla divisione dei compiti.” (Nick Mason)
“A Dark Side lavorò tutta la band. Erano tempi creativi, eravamo molto aperti” (Rick Wright). “Credo perché avevamo uno scopo comune: diventare ricchi e famosi” (Roger Waters).
“Diciamolo pure, portò molta gioia e fierezza, e un paio di problemi. Non sai che succede: lo fai per raggiungere il successo, per diventare ricco e famoso ed ancor di più, e se lo raggiungi pensi: beh? e adesso? Ciò determinò il tema dell’album seguente, ‘Wish You Were Here’, perché non eravamo più noi stessi” (David Gilmour).
Benché concepito e realizzato in grande armonia dal quartetto, The Dark Side Of The Moon segnò di fatto l’inizio della leadership da parte di Waters sui Floyd, leadership che si sarebbe sviluppata negli anni successivi sino a portare al dominio assoluto del bassista sul gruppo, sancito nell’album “The Final Cut”:
“Il grande passo avanti di Dark Side fu la maturazione di Roger come autore di testi e il fatto di avere le idee e l’intelligenza di analizzare un soggetto in tutte le sue parti, nelle diverse canzoni” (David Gilmour).
“Aveva qualcosa da dire: era la prima volta che scriveva tutti i testi” (Rick Wright).
E naturalmente, fu l’album che decretò il successo mondiale dei Pink Floyd e il loro definitivo ingresso nell’olimpo del rock, trasformando la loro popolarità da band di culto allo status di monumento:
“Eravamo abituati ai nostri fans reverenti e silenziosi: avresti potuto sentir cadere uno spillo quando attaccavamo ‘Echoes’ o qualcuno di quei pezzi delicati con i campanellini o un crescendo iniziale, in cui cominciavamo a costruire le nostre atmosfere; e invece questi ragazzi saltano su a urlare ‘Money !’, e Roger non apprezzava questo neanche un po’” (David Gilmour).
Il culto dei Pink Floyd era stato alla fine eclissato dalla popolarità stessa della band.
Il successo di Dark Side fu in parte dovuto anche al cambio di etichetta negli States; il gruppo e il suo management era insoddisfatto dal lavoro di promozione svolto dalla Capitol, e prima dell’uscita dell’album i Floyd passarono alla Columbia che con una politica promozionale aggressiva e determinata rivitalizzò le vendite degli album precedenti, preparando il terreno alla nuova uscita: il successo fu travolgente.
Questo ebbe una ripercussione anche sugli spettacoli dal vivo. Da sempre famosi per il loro light show e per l’attenzione posta alla presentazione scenica, già nel 1972 i concerti avevano assunto dimensioni considerevoli:
“A volte guardo i nostri enormi autocarri e le tonnellate di attrezzature e penso: Cristo, dovrò solo suonare un organo” (Rick Wright).
La rappresentazione live di Dark Side segnò il momento decisivo in cui gli show del gruppo divennero a tutti gli effetti eventi multimediali: un impianto quadrifonico, tre enormi torri per le luci e gli effetti, tra i quali un piatto sospeso di quattro metri e mezzo, fumi, esplosioni e razzi, nastri registrati, filmati… I concerti si trasformarono in esperienze che avevano al centro la musica piuttosto che i musicisti, come invece vuole l’iconografia rock; un orientamento che si sarebbe fatto di anno in anno, di tour in tour sempre più grande, scenografico e spettacolare, tanto da diventare uno dei tratti distintivi del quartetto (e poi della carriera solista di Waters):
“Ci sarà un momento in cui la gente non accetterà più un Mick Jagger di sessant’anni che salta per il palco. Invece posso vedere i Pink Floyd fare uno show anche a settant’anni. Perchè uno show dei Pink Floyd non sono gli individui, sono lo spettacolo, la musica e le luci” (Rick Wright).
A distanza di oltre quattro decadi, The Dark Side Of The Moon non ha perso nulla della sua potenza espressiva e del suo fascino: è difficile oggi capire quanto fosse innovativo per il tempo, e tuttavia resta un album sorprendente: disturbante e suadente, angosciante e liberatorio. È un fatto particolarmente rilevante, considerando che il suo intento era quello di raggiungere il pubblico più vasto possibile con un messaggio e delle tecniche di rottura e di avanguardia.
L’essere riuscito nello scopo è la ragione della sua grandezza.
Tracklist:
1. Speak To Me
2. Breathe (In The Air)
3. On The Run
4. Time / Breathe (Reprise)
5. The Great Gig In The Sky
6. Money
7. Us And Them
8. Any Colour You Like
9. Brain Damage
10. Eclipse
Formazione:
David Gilmour: chitarra, voce, synth
Roger Waters: basso, voce, synth
Rick Wright: tastiere, voce, synth
Nick Mason: percussioni
Ospiti:
Dick Parry: sax
Clare Torry: voce
Doris Troy, Liza Strike, Lesley Duncan, Barry St.John: cori