Interessante attualizzazione del messaggio gaberiano, questo spettacolo ad opera dell'attore e regista Riccardo Leonelli che, invero arditamente ma in termini assai credibili, immagina un confronto tra il Gaber storico, quello scomparso nel 2003 (da egli intepretato), e il Gaber odierno, del tutto putativo, asseritamente sopravvisuto alla malattia (Emanuele Cordeschi). Riproponendo i pezzi più rappresentativi del noto cantautore milanese, il dialogo inscenato dai due Gaber offre al pubblico un confronto avente a tema l'odierna società, i cui tratti essenziali erano stati grossomodo previsti dal duo Gaber/Luporini pur con l'eccezione del politically correct, orientamento ideologico e culturale che, purtroppo, è arrivato oggi ad esasperare gli originali, lodevoli intenti tesi a privare la lingua e le intenzioni dai pregiudizi di qualsivoglia natura. Fa riflettere, peraltro, che il politicamente corretto (lo scriviamo in lingua italiana proprio per non urtare i nazionalisti), sia stato nel tempo promosso, sostenuto ed esasperato proprio dalla sinistra, quella stessa sinistra nella quale, verosimilmente, oggi Gaber non si riconoscerebbe più: sul palco, infatti, i due attori inscenano un surreale ma stimolante dialogo nel corso del quale, tra l'altro, l'uno aggiorna l'altro riguardo al fatto che la Chiesa è rimasta l'unico vero baluardo schierato a sinistra. Sullo sfondo, i magnifici pezzi del Gaber musicista, attinti ovviamente dal periodo del teatro-canzone, con l'eccezione de "La ballata del Cerutti", scritta assieme ad Umberto Simonetta, uno dei collaboratori di Giorgio Gaber prima del suo sodalizio con Sandro Luporini (i temi parodistici su cui è incentrato il testo del brano, comunque, permettono di collocare agevolmente questo brano nel medesimo contesto cui appartengono gli altri pezzi). Nell'elogiare Riccardo Leonelli sia per la incredibile capacità emulativa palesata, sublimata da innegabili capacità attoriali, sia per il coraggio manifestato cercando di attualizzare il pensiero di Gaber/Luporini, preme segnalare gli unici due aspetti menno avvincenti dello spettacolo (che infatti incidono ben poco sulla validità e sulla portata dello stesso): da un lato, la sua lunghezza eccessiva, spalmata su oltre due ore di durata; dall'altro, gli arrangiamenti profferti dal quartetto, apparsi forse troppo introspettivi, intrisi di malinconia, totalmente privi, cioè, di una certa solarità che invece Gaber non disdegnava affatto (preme anche segnalare che il volume del cajon è risultato troppo altro rispetto a quello degli altri strumenti, con effetti talvolta prevaricanti). Il 1° Gennaio del 2003 se ne andava Giorgio Gaber, lasciando un vuoto incolmabile nel mondo musicale e teatrale italiano, già da tempo avviato sul binario morto del conformismo artistico. La poetica di Gaber, inizialmente confinata entro le rigide regole della tv degli anni 60, poi sempre più libera e prorompente, è stata un faro per diverse generazioni in Italia. I suoi monologhi e le sue canzoni, realizzati sempre insieme a Sandro Luporini, si sono distinti per un carattere unico e irripetibile: sia per il coraggio e la profondità dei suoi contenuti, sia per l’originalità e la potenza di un interprete che sapeva coinvolgere e travolgere lo spettatore. Un incontenibile istrione in grado di comunicare con leggerezza temi profondamente impegnati, malinconici, perturbanti, feroci e talvolta disperati. Basti pensare all’oscuro pessimismo degli ultimi album, causato dalle conseguenze di una malattia implacabile e da una realtà politica e sociale in cui non si era mai riconosciuto così poco. Un profeta che ha saputo leggere la realtà del suo tempo – non risparmiando accuse né a destra né a sinistra – e prevedere l’abisso etico e la perdita di valori della contemporaneità, evocando più volte spettri di guerra tristemente attuali. E se Gaber oggi tornasse fra noi? Avrebbe la libertà di allora o sarebbe imbrigliato nelle maglie del conformismo culturale, ricevendo post e cinguettii con accuse di intolleranza, razzismo e (addirittura) fascismo? Lo spettacolo immagina un Giorgio Gaber redivivo (Riccardo Leonelli) catapultato nel 2024, che, attraverso un dialogo originale, sarcastico e divertente col suo alter ego (Emanuele Cordeschi), ripercorre alcuni fra i suoi pezzi più dirompenti, acquisendo la graduale consapevolezza che il mondo odierno è andato esattamente nella direzione da lui prevista, con alcune eccezioni… prima fra tutte la dittatura del politically correct. Il benessere cambia mode, gusti e valori, tanto che in vent’anni la realtà morale, politica e sociale è profondamente mutata e molto di ciò che era (ancora) coraggioso dire all’inizio degli anni Duemila, oggi risulta scomodo, vergognoso, deplorevole. In una sola parola: politicamente scorretto. Ad accompagnare i due cantanti-attori ci saranno Lorenzo D’Amario ed Emanuele Grigioni, rispettivamente chitarra e fisarmonica, in una performance live che vuole far divertire, riflettere ed emozionare i suoi storici fan, ma anche le nuove generazioni che non conoscono il Signor G: dai divertissement apparentemente disimpegnati del primo Gaber fino alle malinconiche canzoni dell’ultimo periodo. I protagonisti daranno voce e – soprattutto – corpo al genio di Gaber, ricostruendo canzone dopo canzone, monologo dopo monologo un identikit ideale di uno dei mostri da palcoscenico più grandi del nostro Novecento, profeta scorretto, forse non pienamente compreso e mai abbastanza ricordato (fonte: comunicato stampa). Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 14 gennaio 2024. |
IL PROFETA SCORRETTO tracklist
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