"Stanno sparando sulla nostra canzone" è un'opera che permette di apprezzare tre distinte abilità artistiche: canto, danza e, non è neanche il caso di precisarlo, recitazione. Le prime due compagini vedono Cristian Ruiz e Brian Boccuni primeggiare ex aequo: costoro sanno ballare benissimo e palesano non inferiori abilità canore. Per ciò che riguarda queste ultime, peraltro, entrambi osano incedere sui registri alti, perseguendo risultati a dir poco esaltanti. In un tale contesto, le note basse di un'ottava (o forse anche di più), cantate da Veronica Pivetti, appaiono funzionali al raggiungimento di una perfezione osmotica e complementare che è largamente apprezzata nelle commedie musicali. Per ciò che afferisce alla recitazione in senso stretto, siamo di fronte a tre eccellenze ma la donna, ovviamente, è in grado di offrire un campionario espressivo di netto e superiore livello. Entrambi i ragazzi sono brillanti, a tratti spumeggianti, lei è invece un po' tutto, percorrendo uno stratificato ed esteso range interpretativo: il copione vuole che la donna da lei interpretata sia prima malinconica, poi spigliata e poi giù, indirizzata verso introspettivi substrati, e ancora subitaneamente volitiva, a tratti fintamente ingenua, sul finale addirittura cinica. Si scopre anche che l'attrice sa fischiare pregevolmente, passando dall'invito risoluto ad alzare i tacchi, al richiamo rustico, giungendo infine al suono melodioso che funge da contorno strumentale alla musica. La regia è oltremodo contorta, a tratti macchinosa: su tutti, valga come esempio l'impiego stravagante di Cristian Ruiz, utilizzato quale presenza fuori campo per tutta la prima metà dello spettacolo, totalmente invisibile agli altri due, eppure a loro funzionale (passa il coltello alla donna o la giacca all'uomo, buca la quarta parete anticipando qualche contesto oppure descrivendo la compagine storica ove operano i due protagonisti), poi repentinamente convertito nel ruolo di co-protagonista (od antagonista, a seconda della visione delle cose), quindi perfettamente in grado di interagire con gli altri due. La sceneggiatura presenta dialoghi lineari mentre i monologhi interpretati dal citato Ruiz sono trasversali, sempre spiazzanti. Tuttavia, la storia descrive una vicenda sentimentale/sessuale in cui si intrecciano e si sovrappongo le azioni di tre persone legate tra loro da rapporti ambivalenti e confliggenti, quindi le scelte oblique del direttore di scena e dello sceneggiatore sono assolutamente funzionali e giustificabili, logiche conseguenze sottese alle dinamiche stravaganti che connotano la vicenda. Ciò che rimane incomprensibile è la scelta della colonna sonora: "Kiss" di Prince, "Life on Mars?" di David Bowie, "Mi vendo" di Renato Zero, "Certe notti" di Ligabue e tanti altri brani ancora che, tutti insieme, concretizzano un'apoteosi anacronistica del tutto ingiustificata. Questa irregolarità si traduce in uno stravolgimento totale delle cose: succede, infatti, che il pubblico partecipa coinvolto, indovinando il titolo del pezzo di turno fin dalle prime note, canticchiando qualche verso, addirittura segnando il tempo con un piede o anticipando di un po' ritornello e cori. E quindi, ad un certo punto, invece di apparire le musiche fuori contesto, sono la pupa, il gangster e il pokerista ad esserlo, complice anche l'abbigliamento imposto a Brian Boccuni che, indossando jeans attillati e giubbotto di pelle, pare uscito direttamente dagli anni '50 di Happy Days, piuttosto che dal periodo del proibizionismo di 30 anni prima. Quanto sopra sa di occasione persa: ma quanto sarebbe stata bella, questa rappresentazione, impreziosita da balli antichi come il charleston o il tip tap e sublimata dalle sonorità ragtime o dalle rassicuranti profusioni canore dei primi grandi crooner, come Bing Crosby (che proprio nei tardi anni '20 cominciarono a mietere i primi successi)? Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 25 aprile 2023. |
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