Il Mercante di Venezia è certamente l'opera più controversa di William Shakespeare. A discettare con qualcuno sugli argomenti ivi affrontati, si corre il rischio di generare un dibattito piuttosto acceso, se non di entrare con prepotenza in un tunnel tematico in grado di determinare tensioni e contrasti. C'è chi la considera una rappresentazione dalle forti connotazioni discriminatorie (e chi scrive aderisce a questa visione delle cose). In tal senso, essa è chiaramente intrisa di antisemitismo, sia nella descrizione del protagonista (ispirata ai più beceri luoghi comuni), sia nel destino che viene a quest'ultimo riservato (oggettivamente crudele ma pericolosamente ammantato di un velo di giustizia a vocazione vendicativa che rischia di ricevere pericolosi consensi collettivi). Per contro, c'è chi intravede, nell'opera dei drammaturgo inglese, un senso di integro ed equo equilibro tra la compagine cristiana e quella ebraica. In tal senso, per la frangia asseritamente equidistante dalle due culture/religioni, l'opera è semplicemente espressione di un conflitto mai sopito tra ebrei e cristiani. Il comportamento riprovevole di Shylock, quindi, sarebbe meramente consequenziale al trattamento a lui riservato dalla collettività cristiana: il suo atteggiamento nel presente, in sintesi, così come il trattamento ad esso riservato, risponderebbero per costoro a mere esigenze di contrappasso. Al riguardo, sarebbe esaustivo il passaggio attribuito proprio al protagonista nella scena I dell'atto III, : «Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? Non si nutre anche lui di cibo? Non sente anche lui le ferite? Non è soggetto anche lui ai malanni e sanato dalle medicine, scaldato e gelato anche lui dall'estate e dall'inverno come un cristiano? Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?» E' indubbiamente una interpretazione dei fatti interessante e neanche tanto inverosimile, a dirla tutta, se non fosse che se tutti noi mantenessimo la trama intatta, ma invertissimo i ruoli per un attimo - collocando il cristiano al posto dell'ebreo e la collettività ebraica al posto di quella cristiana - il teatro sarebbe repentinamente abbandonato nel giro di una manciata di minuti. Orbene, tralasciando di sviluppare ulteriormente queste considerazioni, e limitando l'alveo di questo scritto agli aspetti squisitamente recitativi, che son quelli che effettivamente ci competono in questa sede, vien da dire che se la rappresentazione non fosse credibile, come effettivamente è stata, noi ora non staremmo minimamente porgendoci quesiti di varia natura ad essa sottesi. Si tratta, in breve sintesi, di un'opera così ben diretta, così magistralmente interpretata, che il messaggio di cui la stessa si rende portatrice, che sia ad indirizzo antisemita o meno, supera tout court la finzione (caratteristica intrinseca di ogni pièce teatrale), generando riflessioni, dibattiti e contrasti come farebbe una qualsiasi esperienza vissuta nella realtà. Tutto ciò è possibile grazie a diversi talenti ivi impegnati. Franco Branciaroli riveste l'ebreo di una freddezza glaciale che letteralmente paralizza lo spettatore sulla poltrona, peraltro manifestando un controllo perfetto delle pause, quasi giocando con il pubblico tutto, del quale egli sa tenere alta, anzi altissima, la curva dell'attenzione. Valentina Violo connota di verve puntuta il suo personaggio, esprimendo infinite qualità con immutata maestria: dall'estro, all'intelligenza, passando per l'ironia, l'eclettismo, la sensibilità e molto altro ancora. Se non fosse per i cinque secoli che separano l'autore dall'attrice, si potrebbe dire che il primo si sia ispirato alla seconda per forgiare le qualità caratteriali di Porzia. Questa interprete, peraltro, palesa una tale apprezzata volitività, proseguendo imperterrita nella sua direzione, anche quando il microfono si sgancia dal suo corpo, smettendo subitaneamente di funzionare, costringendola a comunicare con il pubblico con la nuda voce, senza che la sua performance patisca la minima flessione. Quanto sopra, pur nei limiti imposti dalla secondarietà di un ruolo minore quale quello dell'ancella Nerissa, vale anche per Dalila Reas, che esprime l'abilità di colorare di civettuola attitudine una donna che civettuola non è affatto, giacché chiaramente dotata di un substrato intellettivo che pare competere con quello della sua padrona. Sullo sfondo, una scenografia contraddistinta da geometrie nette, di stampo prevalentemente plumbeo: Branciaroli pare perfettamente a suo agio nel suo ambiente, la Violo e la Reas, invece, ci sguazzano allegramente, consapevoli di generare un efficace contrasto grazie alla loro interpretazione spumeggiante. Ci sarebbero altre parole elogiative da spendere nei confronti di ulteriori soggetti ma non vogliamo correre il rischio di spoilerare. Basti, al lettore, quanto sopra espresso, sperando che egli sappia investire nel migliore dei modi il proprio tempo prezioso e desideri dare vita ad un dibattito stimolante e, in termini di valore specifico, purtroppo ancora attuale. Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 1° novembre 2022. |
IL MERCANTE DI VENEZIA
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