Torno a vedere “Morte di un commesso viaggiatore” dopo 30 anni; allora era stato Enrico Maria Salerno ad affascinarmi, adesso sono stati Michele Placido, entrato “in corsa” nel ruolo del protagonista Willy Loman dopo la defezione di Haber per motivi di salute, e Alvia Reale nel ruolo altrettanto fondamentale della moglie di Loman. La trama è nota e paradossalmente semplice nella sua durezza: lui è uno dei tanti uomini che sognano quella ricchezza e quel successo che portano alla emancipazione, vivendo una quotidiana mediocrità fatta di chilometri e chilometri bruciati giorno dopo giorno per il suo lavoro di commesso viaggiatore. Accanto a lui, la sua famiglia disfunzionale: la moglie, appunto, ed i due figli in eterno bilico tra l’ammirazione per quello che potrà essere ed il rancore per il tempo speso ad aspettare che si avveri. Una storia di amore e odio, di ammirazione e disprezzo. Sullo sfondo la malinconica depressione del protagonista, che non può non vedere le sue sconfitte in un mondo in espansione inarrestabile come l’America del dopoguerra, e che allo stesso tempo non impara mai da queste sconfitte. Sa di poter e dover essere l’artefice del proprio destino, mantra alla base del “sogno americano” in cui è immerso, ma questo lo fa sentire a maggior ragione solo e inadeguato, inetto rispetto ai successi che vede accadere attorno a sé. E la vita vera, la casa, la famiglia diventano solo fonte di problemi che amplificano la difficoltà ad affermarsi, sfogo delle proprie frustrazioni ed allo stesso tempo motivo di vergogna. Una vita che non produce frutti, refrattaria alla “semina”, fatta di sogni e valori fasulli. Una storia triste - come può non esserlo visto che la parola “morte” ci assale sin dal titolo dell’opera di Arthur Miller - che ha l’inquietante capacità di insinuarsi nella coscienza con tocchi di realtà attuale. La competizione per il successo, il divario tra poveri e ricchi sono oggi gli stessi, se non maggiori, la possibilità di prendere l’“ascensore sociale” è solo un miraggio e ha forse barriere ancora più alte di allora. Inoltre, il voler essere – e mostrare - ciò che non si è di Willy Loman e la sua superficialità ben si rispecchiano nella moderna richiesta di personal marketing e nel miraggio di successo degli influencer via rete, dove una vita virtuale fatta di apparenza sovraesposta riesce solo a stento e temporaneamente a nascondere l’essenza del nostro essere. Una vita di bugie pronta a deflagrare in mille pezzi. E anche la “ricerca della felicità” di Loman è coerentemente destinata a frantumarsi nel gesto estremo, unico modo rimasto per aiutare – non richiesto - Biff a raggiungere finalmente il successo, finanziandolo con la riscossione della tanto sofferta assicurazione. Anche questa iniziativa finale è destinata al fallimento. Per tutti gli altri, invece, non è altro che l’ennesima definitiva fuga, la resa, l’apoteosi della sconfitta proprio quando anche l’ultimo debito, l’ultima rata di una casa destinata a rimanere vuota viene pagata. In fondo in fondo si tratta della cancellazione del “proprio account”, del proprio “avatar” in modo che gli altri non ne possano arrivare a vedere la piccineria. Alla fine, non potremo che nutrire disprezzo per queste vite sprecate senza senso e anche un poco di rabbia per la tenera vicinanza della moglie di Loman a quest’uomo che ha sprecato l’amore e l’amicizia intorno a sé: perché non si ribella, perché accetta e si fa complice della finzione? Forse ce lo dice Charley, il buon amico di Loman, che sempre gli è rimasto vicino con affetto: “Non calunniate quest'uomo. Tu non hai capito: Willy era un commesso viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lucido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest'uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere.” Ottima l’interpretazione di Placido, forse resa meno “arrabbiata” dal regista Muscato rispetto a quel che ricordavo dalle visioni antiche e dalla lettura del testo. Una scelta drammaturgica che ha messo in evidenza più gli aspetti patetici e le debolezze del protagonista che gli indubbi limiti caratteriali e i sentimenti negativi… come a dire che è il mondo che è cattivo, non la persona (ma il mondo non è fatto di persone?). La resa dimessa della recitazione di Placido ben illustra, in ogni caso, la solitudine di un uomo che non si sente lasciato libero di fare ma abbandonato, circondato da molteplici vite che invidia tanto da dimenticarsi di vivere la sua e da chiedere e chiedersi più volte “ma gli altri come hanno fatto”? Mi è molto piaciuto anche il modo con cui l’attore è riuscito a descrivere “la propria mente”, i propri pensieri, unendo parole a gesti ricorrenti, evocativi (gli occhi rivolti a terra, la testa ciondolante quasi i ricordi pesassero troppo, la figura fantasmatica del fratello proiezione mentale delle proprie insicurezze, la voce mai urlata dei momenti di rabbia). La voce, ecco, forse l’unico appunto si può fare ad una recitazione quasi strozzata e poco incline a raggiungere tutte le sfumature possibili. Un po’ monocorde anche nei cambi di scena durante i flashback del passato. Ottima la recitazione anche di tutto il resto del cast, in particolare della moglie e dei figli di Loman; lei pienamente efficace nel suo ruolo di fallito salvagente per il marito - nonostante una vita spesa accanto a lui taciturna, protettiva, amorevole - gli altri in perfetto equilibrio tra amore filiale ed egoismo rabbioso. Interessante la scelta di una scenografia in continuo movimento ed evoluzione, tra l’interno scalcinato del soggiorno di casa e l’esterno, per rendere la continuità della storia nei continui rimandi temporali tra episodi del passato e pensieri dell’oggi. Una bella serata per il numeroso pubblico che si è dimostrato soddisfatto della performance con sentiti applausi e commovente anche il ringraziamento di Placido in chiusura verso lo stesso pubblico che “ci fa respirare di nuovo con la sua presenza il il profumo della cultura, nonostante le mascherine”.
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Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller
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