Per la prima volta in Italia, Elio De Capitani porta in scena Moby Dick alla prova di Orson Welles: epica moderna, ultimo scontro tra titani in un’epoca di uomini sempre più piccoli, che vogliono ridurre la Natura stessa sotto il loro vorace dominio, ma sanno dominare solo attraverso la distruzione. In un palcoscenico senza scenografia, ingombro di sedie e tavoli, un gruppo di attori è in attesa del capocomico per le prove del Re Lear. Quando questi arriva, però, annuncia di voler provare un nuovo testo tratto da Moby Dick. Tra le perplessità e le proteste, gli attori cominciano le prove, immedesimandosi sempre più nei personaggi. “Rimediate / coi vostri pensieri alle nostre imperfezioni”: così il pubblico, con i versi di Shakespeare, è chiamato ancora una volta a usare la scenografia più potente – l’immaginazione – e in una scena livida come il suono dell’oboe tre sedie rosse come tre macchie di sangue già preannunciano la tragedia. Tre alte scale metalliche sono gli alberi della Pequod, sei tavoli d’acciaio su rotelle sono scialuppe baleniere, una sedia da barbiere il trono di Lear, e di Ahab, e un grande velo liquido argento e nero fa prendere il largo, si gonfia maestoso ai venti dei Quaranta Ruggenti, traluce come acqua profonda in mezzo al branco di capodogli mostrandoci gli occhi dei piccoli che poppano, e infine inghiotte per sempre il capitano e il suo odio. Ambienti fatti di oscurità impalpabili, tra ombre diffuse, oblique, mai rivelatrici e gli spot come isole di luce, o isole mute di uomini e donne che ascoltano ancora una volta la storia di Giona nella cappella dei balenieri di Nantucket, prima della partenza. Una storia di orrore che finisce bene perché l’ebreo riconosce la potenza di Dio. Non così finirà per Ahab che “colpirebbe persino il sole, se osasse insultarlo”, e come il colonnello Kurtz in Apocalypse Now, porta il suo equipaggio a “farsi amico l’orrore”.A bordo della Pequod si assiste alla trasformazione dei marinai e degli ufficiali, sotto l’influsso della ossessione del capitano: tutti prima o poi indosseranno come lui una mezza maschera che copre la parte inferiore del volto come un hanbō di samurai, uniti tra di loro, “stretti in quel patto, saldati gli uni agli altri nello stesso destino”. Solo quando si lascia spazio alla propria umanità, quando l’odio e l’ossessione lasciano il cuore, la maschera lascia libero il volto. Questa recensione si riferisce alla rappresentazione del 20 febbraio 2024 |
MOBY DICK ALLA PROVA di Orson Welles coproduzione Teatro dell'Elfo e Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale TEATRO ELFO PUCCINI |